Il referendum in Gran Bretagna sulla legge elettorale

Pubblicato il 3 Giugno 2011 alle 15:06 Autore: Francesca Petrini
referendum in gran bretagna

Le prime proposte di modifica del sistema elettorale in voto alternativo furono avanzate nel 1909-1910 e ripetute nei primi anni ’30: i progetti di quegli anni fallirono e l’ipotesi di riforma è stata avanzata nel tempo soprattutto dal partito liberale. Il governo Blair, poi, fin dal 1997 si è interessato della questione: nel 1998, nonostante l’istituzione di un’apposita commissione, la Jenkins Commission, e  la pubblicazione di un rapporto nel quale si proponeva un sistema misto AV and Top Up, il tutto rimase lettera morta. Si ricorda inoltre che, nel corso di questi ultimi anni, il Regno Unito ha adottato diverse formule per scegliere i rappresentanti nelle elezioni di Londra, nelle Assemblee devolute e nelle elezioni europee e che, già all’inizio del 2010, sempre con esito negativo, si è registrato un tentativo referendario per l’introduzione del voto alternativo, quando Gordon Brown ha inserito nel Constitutional Reform and Renewal bill 2009-10 la proposta di tenerlo entro il 31 ottobre 2011. Nonostante ciò, è bene ricordare che, in generale, i britannici non amano i referendum o, meglio, il referendum è un istituto eccezionale per l’ordinamento britannico. Fino agli anni ’70 del XX secolo, il Regno Unito veniva considerato uno degli emblemi della democrazia rappresentativa e, stante il tradizionale principio della sovranità parlamentare, era ritenuto praticamente incompatibile con lo strumento referendario. A partire da quel periodo, invece, si è cominciato a ricorrere al referendum, ma soprattutto a livello locale e per la devolution. A livello nazionale, fino ad oggi, era stato usato solo il 5 giugno 1975, quando si votò sulla permanenza del Regno Unito nella Comunità Europea, ovvero rispetto ad un quesito estremamente “pragmatico” e, pertanto, compatibile con il principio della sovranità parlamentare. Non è dunque un caso se nell’ordinamento britannico manca una definizione della natura dell’istituto referendario e una sua univoca disciplina: non esiste nemmeno una regola generale in merito al quorum di votanti necessario alla legittimità della consultazione. Ad ogni modo, forse a fronte della sottesa diffidenza britannica nei confronti dell’istituto referendario, in merito al quesito su cui gli elettori sono stati chiamati ad esprimersi lo scorso 5 maggio, non pochi sono stati i dubbi sollevati nel dibattito politico dottrinario: anzitutto si è trattato dell’effettività di un cambiamento rilevante nei risultati elettorali, e quindi nella formazione dei governi, nel caso di affermazione del sistema del voto alternativo; in secondo luogo, si è trattato dell’opportunità o meno della scelta di sottoporre a referendum un tema così complesso e tecnico come quello delle formule elettorali; un’ulteriore critica ha riguardato la possibilità di scelta fra due sole alternative.

Ad ogni modo, è interessante notare come, su una così complessa questione elettorale, intimamente legata allo stesso funzionamento della forma di governo, i partiti abbiano assunto posizioni diverse e, in alcuni casi, piuttosto ondivaghe. I liberaldemocratici, insieme ai partiti minori, si sono spesi attivamente nella campagna referendaria a favore del cambio di legge elettorale, i conservatori hanno fatto lo stesso ma esprimendo parere contrario, mentre il partito laburista non ha dato un’indicazione ufficiale ai suoi iscritti. La campagna referendaria è sembrata poi così esasperata nei toni e poco interessata all’approfondimento del quesito agli elettori, in particolare circa i risvolti del referendum sul piano della forma di governo, che forse non è azzardato parlare di un’abdicazione da parte dei partiti rispetto alla loro fondamentale funzione di raccordo tra cittadinanza e istituzioni. Testimonianza ne sono gli spot referendari che, dal lato dei sostenitori dell’alternative vote, hanno raffigurato quello attuale come un sistema che costringe i parlamentari a guadagnarsi il sostegno della maggioranza e pertanto da cambiare in virtù del pluralismo, mentre dal lato dei fautori del sistema attuale first past the post, si è prospettata una violazione della regola “one person, one vote” (quando piuttosto si concede una prima preferenza di protesta ai sostenitori dei partiti minori di modo da permettergli di influenzare il risultato finale della maggioranza di governo con la seconda preferenza).

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L'autore: Francesca Petrini

Dottoranda in Teoria dello Stato e istituzioni politiche comparte, si è laureata in Scienze Politiche e Relazioni Internazionali ed ha conseguito il titolo di Master di II livello in Istituzioni parlamentari per consulenti d´Assemblea.
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