Nucleare: il problema della dipendenza energetica

Pubblicato il 8 Giugno 2011 alle 09:23 Autore: Matteo Patané
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La concentrazione di un giacimento è fondamentale per il calcolo dello yeld, il grado di estraibilità, ovvero la quantità di minerale che realmente si riesce ad estrarre da un giacimento.
Con l’attuale tecnologia estrattiva lo yeld è ricavabile empiricamente, per valori di G maggiori a 0,05%, come

y = 0,980 – 0,0723 (log g)2

 

Per valori inferiori alla soglia il risultato è da intendere come un limite superiore. La formula si discosta dai risultati teorici previsti, ed è il risultato – considerato addirittura ottimistico dagli autori – del lavoro realizzato da Storm van Leeuwen e Smith, un’équipe indipendente i cui risultati sono stati presi a bandiera da molti anti-nuclearisti per il mondo.

Ad esempio, in una miniera con concentrazione g = 0,1% un kg di uranio è contenuto in una tonnellata di matrice. Lo yeld calcolato secondo la formula è 0,9077, il che implica che solo il 91% dell’uranio disponibile riesce ad essere effettivamente estratto. Per ricavare un kg di uranio, pertanto, diventa necessario estrarre 1,1 tonnellate di matrice.

Le altre attività – trattamento chimico, arricchimento – che accompagnano l’uranio fino al suo ingresso nel reattore nucleare hanno un bilancio energetico costante e noto, così come è nota l’energia ricavabile dall’uranio e l’efficienza di conversione in energia elettrica (che per gli EPR si aggira sul 37%). Pertanto il bilancio energetico dell’energia nucleare si può considerare come una funzione della semplice concentrazione di uranio nella miniera, e lo studio di Storm van Leeuwen e Smith pone in circa 0,02% la soglia di concentrazione al di sotto della quale diventa energeticamente sconveniente, con la tecnologia attuale, estrarre uranio, per il semplice fatto che la centrale nucleare si troverebbe lavorare con un bilancio energetico complessivo negativo.

Questo vincolo, che si aggiunge a quello della convenienza economica e a differenza di questo è invalicabile, rende di fatto non sfruttabili le riserve di uranio disciolte nell’acqua di mare o raggruppate sotto il generico “graniti”, “rocce sedimentarie” e “crosta terrestre”, limitando quindi l’estrazione dell’uranio alle miniere vere e proprie, escludendo addirittura quelle con concentrazione di materiale più bassa. Sebbene le stime della World Nuclear Association definiscano in oltre 25 milioni di tonnellate le riserve di uranio contenute in tali matrici, esse sono al momento economicamente ed energeticamente inaccessibili.

Poiché i reattori che verranno costruiti nel corso del presente e del prossimo decennio nel mondo sono tecnologicamente molto simili – per quanto riguarda la parte di effettiva produzione energetica – a quelli attualmente in uso, è possibile stimare una durata delle riserve sfruttabili di uranio da 40 (ipotizzando un consumo medio di 140.000 tonnellate annue) a 55 (con un consumo medio di 100.000 tonnellate annue) anni a partire dal 2009, a seconda di quanti GW di potenza nuclare saranno via via installati nel mondo e in ogni caso tenendo conto delle riserve sia accertate sia dedotte. Nel caso di consumi invariati al livello del 2009 le scorte di uranio durerebbero invece 80 anni.

In sostanza le quattro centrali nucleari italiane, così come tutte quelle di III generazione che verranno aperte nel mondo nei prossimi decenni avranno combustibile a sufficienza, in un’ipotesi ragionevole, solo per una frazione del ciclo di vita per cui sono state pensate, costruite e soprattutto finanziate.

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Salvo clamorose scoperte di giacimenti ricchi e facili da sfruttare, che comunque rinvierebbero solo il problema senza risolverlo, per uscire da questo quadro a tinte fosche non è possibile scommettere su miglioramenti della resa energetica delle centrali, a causa del fatto che tali evoluzioni non investirebbero le centrali attualmente in costruzione e quelle che lo saranno nei prossimi anni; occorre quindi necessariamente puntare ad affinamenti delle tecniche minerarie dell’uranio, che consentano di estrarre il minerale dalla sua matrice con minori dispendi energetici e possibilmente a costi contenuti.

Il Governo Italiano ha scelto quindi, con la legge Scajola e il successivo accordo commerciale con la Francia, di puntare su una fonte di approvvigionamento che, prescindendo da ogni altro fattore ambientale, sociale ed economico di fatto non garantirebbe l’indipendenza energetica al nostro Paese, menttendoci invece nelle mani delle poche multinazionali che controllano l’estrazione e la raffinazione dell’uranio, nonché dell’unica azienda al mondo in grado di costruire ivessel dei reattori, la Japan Steel Works (al 2008).

Una fonte energetica della cui materia prima non si può nemmeno essere certi in termini di esistenza ed utilizzo, dal momento che solo il computo delle risorse dedotte e la presupposizione di notevoli e non scontati progressi tecnologici in campo minerario consentirebbero l’approvvigionamento di materiale per tutta la durata del ciclo di vita delle centrali. Più che una fonte energetica, quindi, una scommessa il cui conto pende come una spada di Damocle sulla bolletta che i cittadini italiani pagheranno nei prossimi decenni.

L'autore: Matteo Patané

Nato nel 1982 ad Acqui Terme (AL), ha vissuto a Nizza Monferrato (AT) fino ai diciotto anni, quando si è trasferito a Torino per frequentare il Politecnico. Laureato nel 2007 in Ingegneria Telematica lavora a Torino come consulente informatico. Tra i suoi hobby spiccano il ciclismo e la lettura, oltre naturalmente all'analisi politica. Il suo blog personale è Città democratica.
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