Reset Pd (Parte I)

Pubblicato il 21 Aprile 2013 alle 18:52 Autore: Matteo Patané

Reset Pd (Parte I)

Quanto accaduto nelle elezioni del Presidente della Repubblica, culminato nella riconferma del mandato di Giorgio Napolitano, è con ogni probabilità l’evento più emblematico e doloroso della sinistra italiana.

L’aver trasformato quella che sarebbe dovuta essere una cavalcata elettorale trionfale in uno scialbo pareggio sino ad arrivare progressivamente a precludersi ogni strada politica che non fosse l’apertura a Berlusconi, l’aver rinnegato il proprio padre fondatore Romano Prodi, aver evidenziato l’incapacità di eleggere o anche solo proporre un nome per la Presidenza della Repubblica pur controllando nominalmente il 49% dell’assemblea dei grandi elettori, e infine il giungere alla formazione del governo come socio di minoranza di Berlusconi, è un capolavoro politico al contrario.

Quanto accaduto al Partito Democratico, in realtà, non è altro che la proposizione violenta e purulenta di tutte le contraddizioni interne che il centrosinistra italiano si porta dietro, e non solo dalla fondazione del PD nel 2007.
Alla prima votazione in cui i democratici potevano dettare la linea, sono esplosi in una miriade di correnti, portato alla luce scontri fratricidi e tradimenti che trascendono il concetto di normale dissenso dialettico fra correnti e assomigliano piuttosto ad una miserevole guerra tra bande.
Bersani si è dimostrato incapace di gestire il partito. Retrospettivamente, si potrebbe anche affermare che la sua campagna elettorale tutto sommato evanescente fosse legata a questo scarso controllo da parte del segretario Bersani. Il voto sulla Presidenza della Repubblica, culminato con la richiesta fatta a Napolitano di accettare un secondo mandato, ha messo per bene in luce come nel PD a comandare siano maggiorenti più o meno occulti, che controllano il voto infischiandosene tanto delle opinioni dei militanti e dei simpatizzanti quanto – soprattutto – delle istanze di chi ha votato Partito Democratico.

Mai come ora la sinistra di governo italiana rischia di restare senza una rappresentanza politica: coloro che rifiutano l’esplicita alleanza con Berlusconi, che non approvano i metodi di Grillo e al tempo stesso non si identificano nel partito personalistico di Vendola sono un patrimonio di idee, competenze e in ultima analisi di voti impressionante, un vuoto potenziale che non tarderà ad essere colmato.
Ma come, e da chi?

Vi è chi dice che la sopravvivenza stessa del PD è in gioco. Sicuramente vero, ma è altrettanto vero che il PD è anche la formazione che ha le maggiori energie per uscire da un disastro del genere. Trattandosi di un partito non personalistico, le sue sorti non sono legate a quelle di una singola persona, né tantomeno a quelle del gruppo dirigente.
Sarà tuttavia il modo in cui si uscirà da questa situazione che determinerà il futuro del partito e in generale della sinistra italiana.

I problemi sono di due ordini: il primo riguarda la struttura del partito, il secondo invece, molto più prettamente, riguarda la collocazione politica.
In questa prima parte dell’articolo verrà analizzato il primo problema, ed in particolare il tema della rappresentanza e del ruolo degli iscritti e dei simpatizzanti.

Gli ultimi anni hanno visto – è innegabile – una progressiva apertura del partito verso la base, dapprima attraverso l’istituzione delle primarie per la scelta del segretario, e successivamente con l’apertura di questo genere di consultazioni anche per la scelta dei parlamentari.
La spaccatura nei voti per Marini prima e per Prodi poi durante le votazioni per il Quirinale rispecchia in maniera piuttosto fedele le divergenze tra la dirigenza del partito, spesso cooptata dall’alto con posti sicuri in lista, e le nuove leve elette tramite le primarie.
Non devono stupire in tal senso gli attacchi alle primarie stesse, colpevoli di aver portato in Parlamento candidati inesperti, troppo emotivi, incapaci di resistere alle pressioni di un popolo di simpatizzanti, a dire di qualcuno, troppo umorale e troppo prono a inchinarsi dinanzi al mito di turno, con espliciti riferimenti a Rodotà.
Sono sintomatiche a tale proposito le parole dell’ex-presidente del Partito Demcoratico, Rosy Bindi:

Che noi avessimo, e abbiamo bisogno tuttora, di un rinnovamento della classe dirigente, è fuori discussione. Che il modo per ottenere il risultato fosse quello che ha realizzato Bersani, mi ha trovato profondamente contraria da molto tempo. Ma soprattutto abbiamo portato in Parlamento, con le primarie, alcune persone che in questi giorni hanno dimostrato di non avere consapevolezza del proprio compito, in un momento in cui va rilanciato il ruolo del Parlamento.

 

La reazione della Bindi non può che essere letta come un’autodifesa: dinanzi al nuovo che avanza, una dirigenza senza più alcun occhio al mondo non può che sperare in una chiusura che consenta un’autoperpetuazione dei ruoli di comando, contando tuttavia su clientele e voto di bandiera via via in esaurimento.
Dall’altra parte la linea dei giovani del partito, ben rappresentati in questi ultimi giorni dalle figure di Civati (giovani anagraficamente parlando) e di Mineo (giovani politicamente parlando), tra i pochi che sono stati in grado di mantenere il contatto con gli elettori anche dopo gli incresciosi eventi di Montecitorio.

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L'autore: Matteo Patané

Nato nel 1982 ad Acqui Terme (AL), ha vissuto a Nizza Monferrato (AT) fino ai diciotto anni, quando si è trasferito a Torino per frequentare il Politecnico. Laureato nel 2007 in Ingegneria Telematica lavora a Torino come consulente informatico. Tra i suoi hobby spiccano il ciclismo e la lettura, oltre naturalmente all'analisi politica. Il suo blog personale è Città democratica.
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