Reset Pd (Parte I)

Pubblicato il 21 Aprile 2013 alle 18:52 Autore: Matteo Patané

La critica rivolta dalla Bindi ai parlamentari eletti con le primarie, sia nelle sue parole esplicite che soprattutto in quelle sottintese, ha dell’incredibile e – in giornate come queste – quasi dell’osceno.
Si rimprovera ai parlamentari della generazione di Twitter e Facebook di saper pensare solo in funzione degli umori della propria base, di non saper seguire una linea politica coerente e a lungo termine, di pensare in ultima analisi alla soddisfazione immediata del proprio elettorato.

Sarebbero anche critiche sensate, se non fosse invece una gigantesca, mistificante strumentalizzazione, e ciò appare tanto più vero se si considerano le differenti defezioni nei casi delle votazioni che hanno visto bruciarsi Marini e Prodi.
Le due candidature sono state in primo luogo scelte in maniera differente: Marini è stato il frutto di un accordo privato di parte della dirigenza con Berlusconi, accordo i cui i grandi elettori del PD sono stati chiamati a dare ratifica e basta.
Prodi è stato liberamente votato dall’assemblea.
Ma la vera differenza è che chi ha silurato Marini lo ha fatto alla luce del sole, dicendolo, scrivendolo in rete e spiegando anche perché ha agito come ha agito. Dopo due giorni, ancora non è venuto fuori un solo nome di coloro che hanno tradito Prodi.
In entrambi i casi si è andati contro le linee imposte dal partito, ma in un caso si è risposto a viso aperto dinanzi alla sollevazione della base, nell’altro si è invece consumato un parricidio nell’ombra. Come non vedere le differenze?

Chi ha ceduto alla piazza e non ha votato Marini ha forse interrotto qualche abile manovra politica? Se Marini fosse stato eletto Presidente della Repubblica il PD avrebbe messo a segno qualche colpaccio politico che ne avrebbe assicurato il successo elettorale o la realizzazione del programma politico? Rispondere alle istanze della piazza disobbedendo alla linea ha interrotto qualcosa?
Forse sì, ma la base non ha il diritto di saperlo, soprattutto in un momento in cui la fiducia nel partito è ai minimi?
Ecco in cosa la Bindi sbaglia – a pensare bene – o rimescola le carte: il filo diretto con gli elettori, essere parlamentari che votano con il cellulare o con Twitter acceso non significa mancare di visione strategica, non significa essere incapaci di scontentare la base.
Significa piuttosto comunicare, significa spiegare, significa saper trasmettere un messaggio di vicinanza e comunione anche quando si deve andare contro i desideri degli elettori, significa saper dire perché si stanno compiendo degli atti apparentemente incomprensibili e rassicurare un popolo deluso che ogni azione, ogni voto, è fatto per loro e per il Paese.
Invece ci si ritrova ancora a non sapere perché Rodotà non aveva le caratteristiche adatte per essere Presidente della Repubblica secondo il PD, o per meglio dire per quelle aree del PD che si sono opposte alla sua nomina.

Lo scontro che si produrrà nel prossimo congresso – con l’augurio che sia prima dell’estate – sarà proprio tra queste due forme di partito, l’una aperta, fatta di comunicazione e trasparenza di intenti, e l’altra chiusa, vocata solo alla cooptazione dall’alto e alla perpetuazione del potere.

L'autore: Matteo Patané

Nato nel 1982 ad Acqui Terme (AL), ha vissuto a Nizza Monferrato (AT) fino ai diciotto anni, quando si è trasferito a Torino per frequentare il Politecnico. Laureato nel 2007 in Ingegneria Telematica lavora a Torino come consulente informatico. Tra i suoi hobby spiccano il ciclismo e la lettura, oltre naturalmente all'analisi politica. Il suo blog personale è Città democratica.
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