E se il Pdl se ne andasse davvero?
Nel caso del Pdl, sulla natura collettiva dell’atto (anche viste le sue “dimensioni numeriche”) non ci sarebbero dubbi.
L’unico stratagemma che potrebbe rendere ammissibili queste dimissioni sarebbe il considerarle non come frutto di una decisione del gruppo, magari su consiglio o richiesta del presidente, ma come gesto spontaneo di solidarietà a Silvio Berlusconi.
Certo, rispetto ai radicali il Pdl può contare sul fatto che non c’erano le preferenze, per cui gli elettori non hanno votato direttamente quel parlamentare e le dimissioni non violano nessuna scelta diretta dei votanti, ma questo – come è noto – è conseguenza di un’altra stortura grave, figlia del Porcellum.
In ogni caso, dovrebbe comunque intervenire il voto dell’aula di Camera e Senato su ciascuna delle dimissioni: non ci sono dubbi sul fatto che, qualora ciò avvenisse, il voto si svolgerebbe a scrutinio segreto con procedimento elettronico (ormai la prassi è consolidata e rientra con certezza, a differenza del voto sulla convalida delle elezioni, tra i voti sulle persone che non possono avere uno scrutinio palese).
E’ dunque l’assemblea a decidere nel segreto cosa fare delle dimissioni di deputati e senatori, per cui i parlamentari Pdl sono sostanzialmente nelle mani dei loro colleghi del Pd e del M5S. Per ragioni di numeri, toccherebbe a loro stabilire se “punire” i fedelissimi di Berlusconi, costringendoli a non lasciare i loro scranni (e attirandosi le critiche di chi li accuserebbe di non aver mandato a casa gli avversari per ragioni di comodo), oppure “accontentarli”, accettando le loro dimissioni e liberandosi d’un colpo delle prime linee di parlamentari berlusconiani (che griderebbero contro l’atteggiamento liberticida dei loro estromissori).
E’ facile prevedere che, in caso di discussione e voto sulle dimissioni, i lavori delle aule sarebbero lungamente paralizzati. Così come è facile immaginare la baraonda anche solo amministrativa e tecnica che si creerebbe: una selva di assistenti parlamentari piantati in Nasso, nuovi entranti che potrebbero volere collaboratori diversi, commissioni da integrare in gran parte (e voti per la presidenza e le altre cariche interne da rifare). Un polverone incredibile, insomma, che durerebbe giorni.
L’ingresso dei parlamentari subentranti, tra l’altro, non sanerebbe necessariamente i problemi. Perché, a ben guardare, non sarebbe cambiato nulla rispetto a prima. Sarebbero mutate le teste, ma i numeri sarebbero gli stessi di prima. E non ci sarebbe nessuno scioglimento anticipato delle Camere. Un’ipotesi che si potrebbe avere, al limite, solo se i nuovi entrati decidessero di dimettersi subito dopo la proclamazione, procedendo così fino all’esaurimento delle liste delle varie circoscrizioni. Lasciando dunque soltanto 532 parlamentari alla Camera e 216 al Senato (o rispettivamente 514 e 199, se anche la Lega dovesse fare le valigie).
In quel caso, in linea solo teorica, il Capo dello Stato dovrebbe prendere atto che la composizione delle Camere non rispecchia più quella dell’elettorato e finirebbe per sciogliere le assemblee. Impossibile non notare, però, che quelle “dimissioni successive” non avrebbero proprio nulla di volontario e violerebbero alla radice l’art. 67 della Costituzione, senza contare che l’aula ben potrebbe respingerle. Eppoi non si può sottovalutare la situazione dei singoli neoparlamentari, inseriti in lista con la certezza che mai sarebbero stati eletti: sarebbero tutti disposti a rifiutare a cuor leggero un seggio (con relativo stipendio) piovuto dal cielo?