Caso Electrolux: il parere di Massimo Cacciari

Pubblicato il 2 Febbraio 2014 alle 10:42 Autore: Marco Caffarello
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Caso Electrolux; il parere di Massimo Cacciari

Intervenuto ad Otto e Mezzo il filosofo Cacciari ha voluto dire la sua sul caso Electrolux. Per l’ex sindaco di Venezia continuare ad inseguire la competività attraverso la riduzione dei salari è una follia. Bisogna tornare ad investire in ricerca e sviluppo. La Decolazzazione è un fenomeno parallelo alla globalizzazione che mira solamente al risparmio del costo del lavoro, impoverendone i ceti sociali

Intervenuto in diretta nella puntata di Otto e mezzo di mercoledì 29 gennaio, noto programma di La7 condotto tutte le sere da Lilli Gruber, il filosofo ed ex sindaco di Venezia, Massimo Cacciari, ha voluto dire la sua sullo scottante tema della multinazionale Electrolux, orientata, com’è ormai noto a tutti, a ridurre i salari dei dipendenti assunti in Italia ad 800 euro mensili, questo, spiegano, per ragioni di produttività. Come molti sapranno dalla cronaca, se i dipendenti e i sindacati non dovessero accettare il piano industriale della compagnia svedese, che oltre al taglio dello stipendio da 1400 euro a 800, prevede anche l’azzeramento di tutti gli altri benefit come premi di produttività, straordinari, permessi, ec, allora, come già annunciato, la produzione sarà necessariamente delocalizzata presso altri Paesi dell’Est europeo, regioni nelle quali il costo della manodopera è certamente a più buon mercato. Un vero e proprio ‘ricatto’ dalla difficile soluzione di cui l’Italia come Paese è sempre più oggetto, e a cui la classe dirigente non sembra saper opporre né resistenza, né tanto meno politiche industriali adeguate capaci di invogliare le grandi multinazionali del mondo ad investire nel ‘Bel Paese’. Alla domanda di Lilli Gruber, che gli chiedeva se ciò che sta avvenendo con il caso Electrolux può essere interpretato alla stregua di un ricatto qualsiasi, di un Aut Aut, il filosofo Cacciari ha così commentato:

 

Io ritengo che sia semplicemente indecente anche parlarne. L’Idea secondo la quale si può rendere competitivo questo Paese attraverso una riduzione dei salari, vuol dire innescare una fuga senza fine. Non solo stipendi da 700, 800 euro non permettono oggi di avere una vita dignitosa, ma ripeto, è una fuga senza fine, perchè si troverà sempre un altro luogo, un’altra regione, dove fare impresa. Se la competività la vuoi fare con i costi dei salari, allora non la finirai mai. Si tratta qui di un’impostazione, di una struttura, di un sistema completamente sballato, che non sta in piedi. Dobbiamo metterci nella testa, noi e la classe dirigente, che in alcuni settori industriali, manifatturieri, tradizionali, ed altro ancora, in pratica non ce la possiamo più fare. O si riparte con politiche industriali diverse, o vai in settori innovativi, nuovi, promuovi la ricerca e lo sviluppo, distribuisci diversamente le risorse tra le industrie e si rinnovano le infrastrutture, o altrimenti l’inseguimento della competitività attraverso la riduzione dei salari è una scemenza colossale e totale. Non si otterrà mai il proprio risultato, e sarà sempre una fuga senza fine.”

 

Quello della delocalizzazione delle imprese è infatti uno degli aspetti più contraddittori (e terribili) della globalizzazione, perchè se è vero che il trasferimento delle imprese presso altre aree del globo consente anche di esportare ‘lavoro’ là dove non c’è, è altrettanto vero che questo avviene attraverso un evidente risparmio del suo costo, sia nei termini di quello salariale, che di quello fiscale.

Dunque, sebbene la globalizzazione sia un fenomeno sociale e culturale relativamente nuovo, reso possibile in realtà dal potenziamento delle tecnologie informatiche e della comunicazione, si fa tuttavia sempre più evidente che all’interno di questo contesto il potere nelle mani delle grandi imprese è pressocché totalitario, e la certezza pressoché ineluttabile che qualsiasi futura delocalizzazione sarà sempre a svantaggio dei lavoratori. Con la globalizzazione le grandi società sono  infatti sempre più libere di ‘abdicare’ totalmente al loro dovere etico nei confronti della nazione, e di ritenere valido perseguire la sola strada del profitto, licenziando così i lavoratori e conseguentemente mettendo sul lastrico interi nuclei famigliari. E che l’Etica della globalizzazione sia inquinante, più che il Sistema Italia in quanto tale, nonostante i giusti richiami di Cacciari a tornare ad investire nel più breve tempo possibile in ricerca e lo sviluppo, a conti fatti veri e propri motori per la crescita di ogni nazione, lo dimostra il fatto che negli ultimi anni le imprese ad aver delocalizzato, non sono state quelle dallo scarso fatturato, il ché potrebbe apparire ai più anche ‘ragionevole’, ma sono state quelle che possono vantare alla chiusura di ogni bilancio numeri da capogiro. E’ il caso, ad esempio, della Omsa, produttrice dei famosi collant Golden Lady, che sebbene fattura utili più che discreti, l’anno scorso ha comunque scelto di licenziare 500 operaie italiane e di far produrre le proprie calze in Serbia, dove il salario costa 6000 euro scarsi all’anno. Si aggiunga il caso della fabbrica di Moleno, la Dainese, società produttrice di tute da motociclista che si è sempre giovata del contributo dei piccoli artigiani della zona. L’idillio si è infranto da qualche tempo, e visto che la Dainese ha spostato la produzione all’estero, gli artigiani fornitori ora sono senza reddito. Come non ricordarsi, poi, di sua maestà FIAT, probabilmente a conti fatti, l’azienda che più di ogni altra ha contribuito in Italia ad avanzare un piano di ‘de-industrializzazione’ più che di rilancio della produzione: in 6 anni di delocaizzazione l’azienda torinese ha infatti licenziato 20mila lavoratori italiani per aprire nuovi stabilimenti in Polonia e Serbia, dove un salario costa ¼ rispetto ad un lavoratore italiano. E lo stesso è avvenuto, poi, anche in America con lo ‘storico’ accordo FIAT-Chrysler, che nonostante tutto quello che si è detto, con i nuovi accordi per la produzione di autovetture a Detroit sono previsti anche pesanti tagli per gli stipendi degli operai, una misura senza precedenti nella storia americana. E, ahimè, la lista è ancora molto lunga; nel 2013 si sono registrate anche le delocalizzazioni della Fabriano, di Indesit, e di molte altre aziende ancora, grandi, medio-grandi ed anche piccole, sopratutto al confine, non a caso.

Ma a fare paura sono i dati della delocalizzazione italiana a livello complessivo; si stima che ogni anno in Italia il 6,4% dei licenziamenti ha come sua causa proprio la delocalizzazione. Essendo la globalizzazione un fenomeno del tutto ‘nuovo’ e contemporaneo, e per questo non ancora del tutto decifrabile, certamente si può affermare che non siamo di fronte a un problema solo italico, bensì appartenente a tutto il mondo occidentale. Percentuali simili, anzi persino lievemente più alte, si registrano anche in Francia, Inghilterra e Germania, e non è questo il caso di dire ‘mal comune, mezzo gaudio’.