Costi della politica, ecco il dossier sulla spending review. Stangata alla Rai

Pubblicato il 17 Luglio 2014 alle 12:06 Autore: Carmela Adinolfi
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Solo ieri il Corriere della Sera aveva anticipato i dettagli del dossier sui “costi della politica”, redatto dal commissario Cottarelli, denunciando che dopo ben 4 mesi dalla consegna tale documento non era ancora stato reso noto. Poche ore fa, invece, la svolta. Palazzo Chigi ha pubblicato il carteggio sulla spending review. Centosei pagine, un lungo elenco di sprechi e voci di costo. Comuni, regioni, Stato centrale e pubblica amministrazione gli enti che concorrono a uno sperpero di denaro pubblico stimato in circa 630 milioni di euro l’anno. Soldi che, se risparmiati, consentirebbero al governo di reindirizzare l’attuale politica economica verso una maggiore flessibilità e una rimodulazione al ribasso della pressione fiscale.

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Dei 630 milioni di euro di spesa, la metà (circa 300 milioni), stima il rapporto pubblicato dal Corriere, potrebbe essere recuperata da interventi a livello comunale. Accorpamento dei comuni sotto i 5.000 abitanti, stop al Tfr per i sindaci, riduzione del 20% del numero dei consiglieri e degli assessori comunali alcune delle misure indicate nella relazione. Altri risparmi per 330 milioni di euro potrebbero derivare dall’introduzione di un sistema di costi standard alle regioni. Infatti, ad arginare gli scandali rimborsopoli  non è bastato il decreto Monti che fissa una “retribuzione lorda onnicomprensiva per tutti i consiglieri”. Le Regioni, al momento, continuano ad essere una delle maggiori voci di spesa. Il numero dei consiglieri e i loro stipendi i capitoli più scottanti.

rai

Nel rapporto stilato da Carlo Cottarelli e dal suo staff, infine, si segnala un’altra ingente quanto onerosa voce di costo: la Rai. La tv pubblica rappresenta un esempio perfetto di costi ingiustificati e sprechi a carico dei contribuenti italiani. “A ogni cambio di governo, maggioranza e ad ogni scadenza del consiglio d’amministrazione segue normalmente un giro di nomina dei direttori dei telegiornali, i quali a loro volta nominano e promuovono 3-4 tra vicedirettori e capiredattori per governare con persone fidate – si legge nel documento riportato dal Corriere – I passati capi tornano a disposizione mantenendo però stipendi, titoli e ruolo che avevano precedentemente. Il risultato è che ad esempio nel Tg1 solo un terzo dei giornalisti è un redattore ordinario e gli altri due terzi sono graduati”, conclude il dossier. A fare dell’emittente di Stato un esempio di cattiva gestione della cosa pubblica i compensi del personale, per la gran parte in posizioni di vertice, con il conseguente allineamento degli stipendi con cifre da capogiro. Insomma, troppi giornalisti con mansioni dirigenziali a fronte di un numero esiguo di professionisti con compiti ordinari. Con la conseguente sproporzione fra lavoro svolto e remunerazione garantita. Una situazione rispetto alla quale i tecnici dello staff di Cottarelli consigliano che “le posizioni apicali nelle imprese pubbliche soggette a nomine politiche devono avere carattere temporaneo, con la previsione che la retribuzione segua la funzione effettivamente svolta”. Tale avvertimento vale per la Rai così come per le altre aziende pubbliche. Ora la palla passa al governo Renzi, con i sindacati, c’è da giurare, già in preallarme e pronti a a scatenare la controffensiva.

Carmela Adinolfi

L'autore: Carmela Adinolfi

Classe '89. Una laurea triennale in comunicazione e una specializzazione in Semiotica all'Alma Mater Studiorum. Da Salerno a Perugia, passando per Bologna. Esperta in comunicazione politica, ha approfondito l'ascesa al potere di Matteo Renzi. Interessi: dal marketing alla comunicazione politica fino alle nuove forme di giornalismo digitale. Scrive per Termometro Politico e si allena per diventare giornalista.
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