Gli effetti “maggioritari” dei sistemi elettorali

Pubblicato il 20 Luglio 2016 alle 16:20 Autore: Redazione
Berlusconi , sistemi elettorali, maggioritario, ballottaggio, italicum

Gli effetti “maggioritari” dei sistemi elettorali

La letteratura politologica sul funzionamento dei sistemi elettorali è pressoché sconfinata. E tuttavia, un’analisi compiuta sui cosiddetti effetti «maggioritari» e sulla natura del rapporto che li lega a ciascun sistema elettorale si trova a fatica.

Generalmente, quando si parla di sistemi elettorali si usa distinguere due dimensioni simmetriche: l’input, ossia la logica di trasformazione dei voti in seggi che opera in ciascuna circoscrizione; e l’output, e cioè gli effetti che, a partire dalle preferenze elettorali, il sistema produce in termini di composizione dell’organo elettivo. Lo scopo di queste righe è quello di far luce sul controverso rapporto tra a) ciascuna logica di ripartizione dei seggi – proporzionale e maggioritaria – e b) un particolare tipo di effetto che chiameremo «maggioritario».

Il mio argomento è che, indipendentemente dal modello di sistema elettorale, l’effetto maggioritario è garantito soltanto da uno strumento convenzionale quale il premio di maggioranza in seggi, da attribuire alla lista o, al limite, alla coalizione di liste che abbia ottenuto la maggioranza relativa dei seggi. E, dunque, che sistema maggioritario ed effetti maggioritari sono due concetti distinti, anche se non incompatibili.

Sistemi elettorali: definizione di «effetto maggioritario»

Per prima cosa, occorre intendersi sul concetto di «effetto maggioritario». Proverò, allora, a dire così: data una distribuzione interpartitica di seggi, si ha effetto maggioritario quando il 50% +1 dei seggi complessivi è attribuito a) ad un partito o b) ad una coalizione. Beninteso, qualora tale «pacchetto» venisse attribuito ad un solo partito – piuttosto che a più partiti coalizzati – si escluderebbe il verificarsi di effetti contro-maggioritari come lo sfaldarsi di una coalizione di governo. Pertanto, la regola di massima è che l’effetto maggioritario, prodotto da un dato sistema elettorale, è tanto più risolutivo quanto minori, in termini numerici, i partiti che compongono la maggioranza di governo. Tutto ciò – ribadisco – sempre che, quale che sia il numero dei partiti di maggioranza coalizzati, essi dispongano almeno del 50% +1 dei seggi; altrimenti, non si danno effetti maggioritari.

Questa, in breve, è la connotazione che applichiamo al concetto di «effetto maggioritario». Niente di più; ma anche niente di meno. Immaginiamo, per intenderci, una maggioranza (relativa) di governo con il 46% dei seggi, contrapposta a cinque partiti di opposizione ciascuno con il 9% dei seggi. In un tale scenario ipotetico, le forze d’opposizione, unendosi en bloc, avrebbero gioco facile a mettere la maggioranza in minoranza, con buona pace degli elettori e delle loro preferenze. Si capisce, dunque, che gli effetti maggioritari – quando effettivamente prodotti – vanno di pari passo con la «governabilità» del sistema: solo disponendo almeno del 50% +1 dei seggi, infatti, l’esecutivo può far fronte al caso-limite in cui tutte le forze di opposizione parlamentare si organizzino per boicottare l’attività di governo.

A quanto detto occorre scontare, dall’altro lato della medaglia, questa eventualità: che nella bilancia della competizione politica un solo partito disponga di un peso specifico superiore rispetto alla somma di tutti gli altri partiti rappresentati. Ma a nessuno, s’intende, gioverebbe giustificare la governabilità attraverso i principi della rappresentatività.

Sistemi elettorali: effetti maggioritari e logica proporzionale

Esaminate natura e implicazioni dell’effetto maggioritario, vediamone ora, partitamente, il rapporto con la logica proporzionale e con la logica maggioritaria.

La logica proporzionale – vale a dire il principio di ripartizione dei seggi da cui parte ogni sistema proporzionale, prima e a prescindere da qualsivoglia correzione disproporzionale – vuole che i seggi posti in palio in ogni circoscrizione siano ripartiti in proporzione alle preferenze elettorali. Un sistema di rappresentanza proporzionale riflette o rispecchia, dunque, la distribuzione dei voti espressi dall’elettorato. Com’è, allora, che un sistema proporzionale produce effetti maggioritari? E a quali condizioni una logica proporzionale si coniuga con una distribuzione – variamente, a seconda del grado – maggioritaria?

La logica proporzionale è intrinsecamente debole: è debole perché, per sua natura, non condiziona (in entrata) e non manipola (in uscita) le scelte dell’elettore. A differenza – come vedremo meglio – di quella maggioritaria, la rappresentanza proporzionale non prevede alcun sistema di incentivi e disincentivi, di punizioni e ricompense, talché l’elettore rimane del tutto libero di votare come preferisce. Non basta: una volta espressa, la preferenza giunge, indisturbata, in un calderone di altre preferenze a ciascuna delle quali viene garantito lo stesso posto a tavola. In tal caso, il risultato è presto detto: il meccanismo proporzionale approda – in prima approssimazione – ad esiti maggioritari quando, e solo quando, oltre il 50% dell’elettorato si esprime in favore di uno stesso partito (o, s’intende, di una stessa coalizione). In questa circostanza la distribuzione dei seggi sarà maggioritaria. Ma non è tutto come sembra.

A ben vedere, l’«effetto» maggioritario cui si allude non esiste. È, al più, un’illusione ottica. Risulta – in seconda approssimazione – che la logica proporzionale lascia agli elettori la facoltà di aggregarsi liberamente (come di frammentarsi liberamente). Ma – direbbe Sartori – la libertà di aggregarsi non è causa di aggregazione più di quanto la libertà di ridere sia causa del ridere. Da ciò deriva che il tema degli «effetti» delle logiche elettorali sia da limitare alla sola logica maggioritaria.

Sistemi elettorali: effetti maggioritari e logica maggioritaria

Il primo punto è dunque chiarito; ma è il meno. Rimane da stabilire quale rapporto lega – e in che misura – logica maggioritaria ed effetti maggioritari. La questione si fa subito più spinosa. E diventa spinosa per la sovrapposizione di due livelli che, in sede di argomentazione (e di analisi) logica, dovrebbero invece restare separati: quello circoscrizionale e quello parlamentare. Ma andiamo con ordine.

La logica maggioritaria – adottata dalle differenti varianti di sistema maggioritario – segue questo diverso principio: che in ogni circoscrizione, tutti i seggi posti in palio (uno, in caso di collegi uninominali) vengono vinti soltanto da chi arriva primo. Beninteso, la soglia necessaria alla conquista del «pacchetto» varia sensibilmente in rapporto al numero dei candidati e, soprattutto, alla variante di sistema maggioritario in uso. In ogni caso, e di regola, basta la maggioranza relativa nel turno unico (o first past the post, all’inglese) e nel doppio turno aperto majority-plurality; serve la maggioranza assoluta nel doppio turno chiuso majority run-off.

Comechessia, se ci fermiamo alla logica di ripartizione comune ai sistemi maggioritari, resta – ed è il punto – che chi vince prende tutto. Le preferenze espresse per ogni candidato o partito perdente (dal secondo in giù) vengono inesorabilmente accantonate.

Prendiamo per un momento il caso britannico. Il territorio nazionale è suddiviso in seicentocinquanta (650) constituencies, ciascuna delle quali elegge un singolo rappresentante. Per un elettore laburista, ritrovarsi a votare in una circoscrizione tradizionalmente conservatrice significa una condanna certa all’irrilevanza elettorale.

La logica maggioritaria, dunque, manipola le preferenze elettorali con esiti distorsivi – in una certa misura – della rappresentatività. In aggiunta, come accennavo, nel caso del sistema maggioritario a turno unico tale manipolazione è duplice: avviene ex post – in uscita – sulla distribuzione delle preferenze; ma ancor più, e ancor meglio, ex ante – in entrata – sulla scelta dell’elettore. Infatti, se l’elettore non vuole perdere il proprio voto è costretto a votare per i due partiti che si contendono il collegio, anche se la sua «libera» preferenza fosse diretta a partiti minori. Questa ulteriore «coercizione» non avviene nei sistemi maggioritari a doppio turno, in cui ogni elettore rimane libero di votare in prima battuta per chi preferisce, e di correggere il tiro – in un eventuale ballottaggio sfortunato – scegliendo il «male minore».

Torniamo, però, alla logica maggioritaria. Dicevamo che premia chi vince con tutto il «pacchetto», generando disproporzionalità. Non solo: questo meccanismo – ebbene sì – produce effetti maggioritari in ciascuna circoscrizione. Ma – ecco il punto – il livello circoscrizionale non è il livello parlamentare; ed è proprio questo il nodo intorno a cui tutto si annoda. Ne è la riprova, anche qui, l’esperienza britannica: nel 2010, il collaudatissimo first past the post system mancò di approdare ad una distribuzione maggioritaria (nelle elezioni per la House of Commons), costringendo i conservatori ad un governo di coalizione con i liberal-democratici. La ragione è del tutto intuitiva: ciò che un partito guadagna in un collegio elettorale, può esser perso via via in altri collegi, col risultato che a livello parlamentare l’effetto maggioritario rimane un miraggio.

Dunque, anche il tal caso – il caso della logica maggioritaria – l’effetto maggioritario non è garantito. E la relazione causale tra sistemi maggioritari ed effetti maggioritari rischia di diventare una gigantesca illusione ottica. Un’illusione che è ancora più grande, questa volta, per il fatto che a livello circoscrizionale un effetto maggioritario esiste e resiste; viene meno, a livello parlamentare, con la ricomposizione di effetti maggioritari tra loro simmetrici.

Sistemi elettorali: premio di maggioranza come «causa efficiente» di effetti maggioritari

 Ricapitolando: avevamo visto in precedenza che la logica proporzionale non può ambire a produrre alcun effetto diretto sulla composizione dell’organo, men che mai effetti «maggioritari»; dopodiché, abbiamo appurato che la logica maggioritaria garantisce esiti maggioritari soltanto a livello circoscrizionale. Il che – al tirar delle somme – equivale a sostituire fumo con altro fumo.

 Date le premesse, la conseguenza immediata è che gli effetti maggioritari non sono causati (nel senso che implica «causazione») da alcuna logica elettorale; ma possono essere indotti, e dunque garantiti, dal cosiddetto «premio di maggioranza» in seggi. Questo meccanismo convenzionale consente al primo partito («primo relativo») di estendere la sua maggioranza fino (almeno) al 50% +1 dei seggi complessivi, contribuendo a garantire governabilità proprio mediante la produzione di effetti maggioritari. Il premio – si capisce – può anche essere attributo ad un «primo assoluto» (con maggioranza assoluta); ma in tal caso servirebbe soltanto a condensare una distribuzione che maggioritaria già è.

Infine, come in tutte le cose, ci sono buoni e cattivi premi di maggioranza. Per orientarsi, basta osservare semplici regole di buonsenso. A titolo di primo accenno (conclusivo), dovrebbero suonare grossomodo così: a) un «primo relativo» debole (con meno del 40% dei seggi conquistati) non può essere premiato con oltre il 50% +1; e b) all’elettore va garantita – per mezzo di un ballottaggio autaut – la possibilità di scegliere, a titolo di ultima parola, chi premiare. Il resto viene molto da sé.

Andrea Capati

L'autore: Redazione

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