Scissione Pd: tramonta il sogno del compromesso storico

Pubblicato il 22 Febbraio 2017 alle 20:03 Autore: Andrea Balossino
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Scissione PD: tramonta il sogno del compromesso storico

“Stavolta non serviva fare niente. È bastato stare fermi e vedere il bluff”. Sono queste le parole che i media attribuiscono a Matteo Renzi al termine dell’Assemblea del PD di domenica. In realtà, la scissione della minoranza Bersaniana ha mostrato ben altro oltre alle sterili contraddizioni e polemiche sulle tempistiche del congresso, cioè il “bluff” che sarebbe stato rivelato dal mancato arretramento di Renzi. Infatti, quello che emerge è la conferma del “peccato originale” nella nascita del Partito Democratico, che Occhetto definì una “fusione a freddo di apparati”, mentre personalmente ho sempre preferito “salvagente di due classi dirigenti”.

Scissione PD: tramonta il sogno del compromesso storico

Quando nacque il PD, ormai dieci anni fa, dalla fusione dei Democratici di Sinistra con la Margherita, entrambi i partiti ottennero enormi vantaggi: i primi riuscirono a riciclarsi in un movimento libero da quei condizionamenti simbolici e ideologici che avevano permesso a Berlusconi di sfruttare lo spettro comunista per vincere le elezioni, mentre i secondi si aprirono ad un bacino di consenso che difficilmente avrebbero potuto raggiungere per ordinaria via elettorale.

L’obiettivo dichiarato, in teoria, era la fondazione di un soggetto nuovo che realizzasse il famoso “compromesso storico”, traguardo sfumato con l’uccisione di Moro sul finire degli anni ’70 e poi lentamente e faticosamente costruito nella stagione ulivista. La fuoriuscita di una fetta degli ex DS oggi dimostra quanto questo obiettivo avesse per molti una funzione più che altro di facciata e quanto assai più importante fosse la conservazione di equilibri di potere consolidati.

La scalata renziana ai vertici del potere nel PD, in quest’ottica, è stata sempre vissuta da una parte del partito come un’usurpazione, nonostante la crisi sia iniziata proprio con l’ennesimo fallimento della guida “a sinistra” del partito, durante la gestione Bersani. Tra i tanti inganni di questi ultimi tre anni infatti, la minoranza uscente è riuscita a fabbricarne due di eccezionale fattura: la “presa padronale del partito” o il “partito di Renzi” e la “scissione già avvenuta nel popolo del PD” con annessa perdita di voti. Come al solito la pessima memoria degli elettori italiani (una caratteristica eterna dell’elettorato di centrodestra ma dalla quale sembrano non essere immuni nemmeno a sinistra) ha favorito il diffondersi di queste fantasiose teorie.

Un lieve sforzo di memoria infatti permetterebbe di ricordare il gigantesco travaso di voti verso l’astensione e i 5 Stelle, avvenuto nelle elezioni politiche del 2013, con Bersani candidato premier. Il PD scese dai 12 milioni delle politiche 2008 a 8,6 milioni, una picchiata verticale di consenso con una perdita di 7 punti percentuali.

Guardando le polemiche degli ultimi mesi viene da chiedersi se non fosse quello il momento giusto per una conferenza programmatica, di un chiarimento definitivo con l’elettorato e di un definitivo rilancio del progetto politico del Partito Democratico. Nessuna reazione arrivò dal gruppo dirigente di allora, bocciato clamorosamente dagli elettori prima nelle urne e poi, a fine 2013, nelle primarie che collocarono Renzi al vertice del PD.

La severa punizione degli iscritti avvenne nel pieno spirito costitutivo del Partito, dichiaratamente maggioritario nelle aspirazioni e nella struttura interna. L’accusa al Pd di essere ormai diventato il PdR (Partito di Renzi) è un colossale insulto ai milioni di militanti il cui unico torto è stato indicare legittimamente l’allora Sindaco di Firenze come guida del Pd, voltando le spalle al precedente gruppo dirigente. Nessuna svolta padronale, solo le regole del partito che, in accordo con la propria “vocazione maggioritaria”, prevedeva una leadership forte, scelta e legittimata con il sistema delle primarie, mescolando la tradizione dei partiti di massa, plurali e partecipati dal basso, con il modello americano.

È lo stesso statuto a prevedere un limite di mandato per il segretario, dunque l’intera questione della “svolta autoritaria” nel Pd a guida Renzi è la semplice e lampante dimostrazione del fatto che una parte del partito, quella in uscita, non ha mai davvero compreso o accettato queste regole del partito o ha smesso di farlo quando si è trovata in minoranza.

A conferma di questo il governatore toscano Enrico Rossi scriveva martedì: “Bene…piano piano tutto si chiarisce. Lo scontro sarà tra Renzi e Emiliano. Uno spettacolo senza contenuti, una giostra populista, né di destra né di sinistra. Chi accetta questo gioco non può rappresentare gli interessi dei ceti popolari e si destina all’irrilevanza. Ecco perché io ne sto fuori e mi impegno a costruire una forza politica nuova, seria, coerente, non subalterna, autenticamente di sinistra”.

Queste parole confermano la presunzione assoluta con cui questa parte continua a ritenersi depositaria di un’autenticità esclusiva dello spirito di “sinistra” e anche la decennale militanza strumentale all’interno di un partito che voleva dare un nuovo significato alla parola sinistra, superando i dogmi e non certo riproporre una novecentesca “Rivoluzione socialista”. Con questo ritorno al passato, come ha detto Veltroni in assemblea, in linea con il trionfo del proporzionale, tramonta forse definitivamente il sogno del “compromesso storico”.