Pd, una difficile alternativa ai partiti carismatici

Pubblicato il 1 Settembre 2010 alle 16:52 Autore: Bertram Wooster
Questi due modelli di partito, nella Seconda Repubblica, hanno definitivamente trionfato, segnando in qualche modo la profonda diversità italiana dal modello europeo. Il modello carismatico è l’essenza stessa del Pdl berlusconiano, ma domina anche nei partiti medio piccoli, (l’Idv di Di Pietro, l’Udc di Casini, la Sel di Vendola, ma anche il movimento di Fini e quello di Grillo). In questi casi, il partito si identifica sostanzialmente con il leader, e in esso trova la sua unità. La parola del leader è legge, ed è l’unica voce autorizzata: gli altri dirigenti sono dei sottoposti, il loro ruolo è solo quello di ripetere la verità proclamata dal leader nelle occasioni più diverse, e nelle forme più opportune. Il dissenso, anche se il partito ha uno statuto apparentemente democratico, nei fatti non è ammesso. Tant’è vero che un forte dissidio di linea politica si trasforma velocemente in una rottura totale, così come è avvenuto nel Pdl. Le differenziazioni, i distinguo, le critiche, sono vissute, dall’interno e all’esterno, come dimostrazioni di una congiura in atto per rovesciare il leader, come indizi di tradimento imminente. Anche per questo nella cronaca politica trionfa il “retroscena”, in cui si tenta di interpretare politicamente frasi dette a mezza bocca, presenze o assenze a riunioni, umori del leader e così via.
La Lega, invece, è un partito “ideologico”, in cui i militanti contano sì, ma non decidono. Il loro ruolo è “occupare” il territorio, fare propaganda, mostrare con la loro azioni e il loro comportamento le magnifiche sorti e progressive del loro partito, ma vengono tenuti lontano dalla responsabilità delle scelte. Anzi spesso si trovano nella situazione imbarazzante di dover giustificare prese di posizioni bizzarre e spesso contraddittorie, sempre ostentando fiducia ai vertici in nome di un più alto “ideale”. In più, si aggiunge l’elemento carismatico della leadership di Bossi.
È evidente che il Pd è un partito che non corrisponde né al primo né al secondo modello. La scelta del leader attraverso le primarie, e il fatto che il ruolo sia contendibile, toglie ogni forza carismatica al segretario (tranne quella che possa dimostrare per virtù personali), e il fatto che i militanti siano chiamati a scelte e decisioni continue, anche sul piano locale, che siano organizzati in correnti, o in gruppi di opinione, rende impossibile trattarli come pura e semplice “macchina di propaganda”. Il modello partito del Pd, che definiremo “dialettico”, in Europa è vincente (tranne nelle forze populiste e di ultra destra), ma in Italia resta un unicum.
Proprio da questo nascono i problemi di comunicazione del Pd. In Italia, il modello prevalente, per la quasi totalità dei mezzi di informazione, è quello del leader che parla dal pulpito, e dei militanti elettori che assorbono la linea. Il Pd invece ha una pluralità di voci a livello dirigenziale, una base con forte e radicato senso critico, una linea politica che è necessariamente una mediazione tra varie sensibilità. Tutto ciò ne indebolisce fatalmente la capacità di mandare all’esterno un messaggio forte e univoco. Ma il vero punto critico è che il modello “dialettico” di partito è considerato debole da molti degli stessi simpatizzanti. Le lamentele più comuni sono infatti riconducibili proprio alla intima non accettazione della natura del partito, e al fascino dei modelli alternativi, vissuti come vincenti. Da qui nascono le lamentele perché il partito “non parla chiaro”, “ha una politica incomprensibile”, che mostrano un desiderio, neanche troppo velato, di poter contare su parole d’ordine forti non da discutere, ma solo da diffondere. Le critiche invece sulla carenza di leadership, la stigmatizzazione delle continue divisioni, cela invece il desiderio di poter aderire a un movimento “carismatico”, in cui non sia indispensabile dover mettere in gioco ogni volta i ruoli di comando.
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