A che punto è la riforma Gelmini
Ma vediamo punto per punto di cosa parla il ddl e a quali scenari può portare il testo approvato dal Senato il 29 luglio scorso:
Meno poteri al senato accademico. L’art.2 del ddl Gelmini toglie di fatto alcuni poteri al senato accademico, a cui viene data la possibilità di «formulare proposte e pareri». Il senato può modificare i regolamenti in materia di didattica e ricerca solo «previo parere favorevole del consiglio di amministrazione».
Più poteri e ingresso di enti privati nel Cda. Il consiglio di amministrazione può ora approvare il bilancio e decidere della chiusura o dell’apertura dei corsi di laurea. Riduzione del numero di componenti a un massimo di undici, con relativa diminuzione del numero dei rappresentanti di professori e studenti. Ingresso nel Cda di enti esterni all’università (anche privati) nominati direttamente dal rettore. Questi possono variare da un minimo di due, se il Cda ha meno di undici membri, a un massimo di tre, se il consiglio ha undici componenti.
Rettore in carica per 8 anni. Il rettore può mantenere la propria carica al massimo per otto anni (due mandati). Nel frattempo può essere sfiduciato dal senato accademico, con una maggioranza del 75%, se sono trascorsi almeno due anni dall’insediamento.
Atenei più “snelli”. Ogni università può essere costituita al massimo da dodici facoltà. Per dimezzare i costi verranno soppresse alcune facoltà e corsi di studio, e atenei vicini appartenenti alla stessa regione si potranno federare.
Fondo per il merito. È istituito un fondo per il merito destinato a «erogare premi di studio» e «fornire buoni studio che prevedano una quota, determinata in relazione ai risultati accademici conseguiti, da restituire a partire dal termine degli studi». Inoltre il fondo fornisce prestiti d’onore che dovranno essere restituiti interamente dagli studenti. Un bonus economico è previsto anche per i docenti più meritevoli. Tuttavia, non viene fissato un ammontare minimo garantito dal Ministero dell’Economia.
Abilitazione nazionale per il reclutamento docenti. Per i professori associati o ordinari viene istituita un’abilitazione annuale a livello nazionale. Il reclutamento avviene tramite concorsi locali per idonei nazionali, per procedure riservate a personale già operante nell’ateneo, o per chiamata diretta. La valutazione dei professori sarà determinante per l’attribuzione dei fondi alle università da parte del ministero
Stop ai ricercatori a vita. Oggi i ricercatori dopo i molti anni di precariato (post-doc, assegni, borse etc.) possono diventare ricercatori a tempo indeterminato. Se passasse il ddl il ricercatore vivrebbe un periodo di precariato di tre anni, rinnovabile una sola volta di altri tre, in seguito al quale o viene assunto come professore associato (tramite concorso nazionale) o chiuderà il rapporto con l’ateneo mantenendo i titoli per eventuali concorsi. Il provvedimento abbassa l’età in cui si entra di ruolo in università da 36 a 30 anni con uno stipendio che passa da 1.300 a 2.000 euro.
Quest’ultimo punto è al centro della sommossa dei ricercatori, professionisti non sempre giovanissimi che ricoprono circa il 40% delle docenze universitarie nonostante non rientri nei loro compiti. La loro astensione dagli insegnamenti negli ultimi mesi – che non è uno sciopero insensato bensì un loro diritto – ha di fatto bloccato i corsi per migliaia di studenti di tutta Italia, che ancora oggi vivono una situazione di forte disagio (non ricevono il “servizio” più importante, l’insegnamento, pur avendo pagato le tasse).