Dossier: la legge e il fine vita

Pubblicato il 19 Aprile 2011 alle 10:20 Autore: Francesca Petrini
fine vita

Successivamente, il decreto della Corte di Appello di Milano che autorizzava l’interruzione del NIA su Eluana è stato impugnato dalla Procura della Repubblica, l’impugnazione è stata respinta dalla Cassazione per difetto di legittimazione attiva della Procura della Repubblica e l’ex Presidente della Repubblica Francesco Cossiga ha promosso un conflitto di attribuzione tra poteri dello Stato: si è assistito all’inizio di un epilogo da “tsunami costituzionale”. Senza trattare nel dettaglio tali vicende, si ricordi che la Corte Costituzionale ha dichiarato inammissibili i ricorsi di Camera e Senato e che ancora più tardi, esponendo le motivazioni in una lettera riservata al Presidente del Consiglio dei Ministri, il Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano ha rifiutato di firmare un decreto legge predisposto ad hoc per disciplinare il destino della ragazza di Lecco.

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Il “ddl Calabrò”

La vicenda Englaro non si è però esaurita solamente nella mancata emanazione del decreto legge del 6 febbraio 2009 ed è invece continuata, si può dire, nella tentata votazione del ddl n. 1369, nel quale era stato riversato il contenuto del provvedimento urgente, interrotta solo a fronte del decesso di Eluana durante il dibattito in aula. Il summenzionato disegno di legge è stato presentato dal sen. Calabrò il 26 gennaio 2009 alla XII Commissione igiene e sanità di Palazzo Madama. Licenziata dal Senato il 26 marzo 2009, la proposta di legge AC n. 2350, approvata in un testo unificato di diversi progetti di legge d’iniziativa parlamentare, si compone di 9 articoli recanti Disposizioni in materia di alleanza terapeutica, di consenso informato e di dichiarazioni anticipate di trattamento. Il 28 ottobre 2009 la XII Commissione affari sociali della Camera dei Deputati, in sede referente, ha adottato come testo base il ddl Calabrò (AC n. 2350) e solo il 12 maggio 2010 l’ha approvato a maggioranza con il voto favorevole di Pdl e Udc, contrari Pd e Idv, in un testo in parte diverso da quello adottato al Senato. Terminato l’iter in Commissione, l’esame del testo da parte dell’assemblea è iniziato solo lo scorso 7 marzo, accusando in sostanza uno “stop and go” di dubbia legittimità: ci si chiede quanto questa legge sia ponderata e valutata dalla maggioranza con la dovuta attenzione e quanto piuttosto venga usata come strumento di campagna elettorale.

Ad ogni modo, esaminando il testo del disegno di legge nel merito, è possibile svolgere alcune considerazioni di carattere giuridico-costituzionali. Anzitutto, l’articolo 1 dell’AC n. 2350 vieta espressamente qualsiasi forma di eutanasia, rinviando agli articoli 575, 579 e 580 del codice penale, ovvero a quelle disposizioni che disciplinano le fattispecie di omicidio, omicidio del consenziente e istigazione al suicidio o ausilio al suicidio. A tale proposito, come pure si legge nel parere della I Commissione affari costituzionali, stante la scelta politica di vietare qualsiasi forma di eutanasia, sia essa passiva o attiva, di fatto si elude il principio costituzionale di tassatività della fattispecie penale, per cui, non essendo sufficiente un mero rinvio agli articoli del codice penale, si impone al legislatore di definire con chiarezza la condotta per la quale è prevista la pena.

Degno di nota è poi il disposto di cui all’articolo 2 concernente il principio del consenso informato al trattamento medico, ormai da anni riconosciuto alla base di ogni prestazione sanitaria e fondato su una concezione opposta a quella del paternalismo in campo medico: principio che risulta riconosciuto e disciplinato esclusivamente per quanto concerne l’attivazione di un trattamento, rimanendo invece esclusi i casi di prosecuzione o interruzione delle cure, che pure si possono ascrivere alle ragioni stesse di una ricercata disciplina delle dichiarazioni anticipate di trattamento (DAT). Inoltre, ai commi 4 e 5 dell’art. 2 del ddl 2350 si prevede a ragione che sia il rifiuto all’informazione che la revoca del consenso al trattamento debbano essere annotati nella cartella clinica del paziente piuttosto che, com’era stabilito in precedenza, in un generico documento sottoscritto dall’interessato; al contrario, non essendoci una disposizione specifica nell’articolo in esame che tratti della obbligatorietà o meno per il medico di rispettare, nell’esercizio della sua professione, il principio del consenso informato, sarebbe opportuno inserire in tale contesto un richiamo chiaro al valore vincolante che il consenso o il rifiuto del paziente al trattamento devono avere per le strutture sanitarie (sia pubbliche che private), fermo restando l’indiscutibile diritto all’obiezione di coscienza per gli operatori sanitari. Altro aspetto piuttosto discutibile è quello che riguarda il miglioramento nell’assistenza dei malati in stato vegetativo e la diffusione, come diritto, delle cure palliative e delle terapie del dolore. Queste ultime sono infatti riconosciute solo ai malati terminali, mentre per i soggetti minori, interdetti, inabilitati o altrimenti incapaci, la legge non prevede l’alleviamento della sofferenza ma solo la salvaguardia della salute del paziente (articolo 2, comma 8).

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L'autore: Francesca Petrini

Dottoranda in Teoria dello Stato e istituzioni politiche comparte, si è laureata in Scienze Politiche e Relazioni Internazionali ed ha conseguito il titolo di Master di II livello in Istituzioni parlamentari per consulenti d´Assemblea.
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