Licenziamento in gravidanza è legittimo? Ecco quando e come tutelarsi

Pubblicato il 17 Novembre 2020 alle 12:20 Autore: Claudio Garau
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Licenziamento in gravidanza è legittimo? Ecco quando e come tutelarsi

La questione del licenziamento della donna incinta o in gravidanza è certamente delicata. Anticipiamo che la regola generale prevede il divieto di licenziamento in queste circostanze, ma vi sono delle eccezioni di cui andremo ad occuparci di seguito. D’altronde, il licenziamento in gravidanza pone ripercussioni pratiche non di poco conto e diventa dunque opportuno, al fine di trascorrere più serenamente il periodo di gestazione, capire qualcosa in più sulle tutele che regolano gravidanza, maternità e lavoro. Facciamo chiarezza.

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Licenziamento in gravidanza: il contesto normativo di riferimento

Abbiamo appena accennato al fatto che la donna incinta e lavoratrice non può subire un licenziamento, tranne in alcune ipotesi. Si può quindi affermare – in via generale – che il licenziamento in gravidanza non è legittimo.

E’ la legge che lo stabilisce, e anzi ha predisposto speciali tutele e protezioni per la futura madre. La prassi dei rapporti di lavoro però ci insegna che non sono rari i casi nei quali una donna può trovarsi innanzi ad un datore di lavoro sul piede di guerra, e deciso a fare carta straccia del contratto di lavoro, magari a tempo indeterminato. Non deve stupire allora che molte lavoratrici incinte vivano una situazione di tensione e preoccupazione per via del futuro della propria professione.

Ma come dicevamo, è stata la legge a venire in aiuto delle lavoratrici incinte, giacchè è stato emanato il Testo unico delle disposizioni legislative in materia di tutela e sostegno della maternità e della paternità, a norma dell’articolo 15 della legge 8 marzo 2000, n. 53, il quale sancisce le condizioni e le tutele, sul piano economico e fisico, previste nei confronti delle mamme. Inoltre, definisce le regole e il meccanismo del congedo di maternità e paternità. Si tratta del noto decreto legislativo n. 151 del 2001.

In particolare, l’art. 54 del provvedimento, oltre a rimarcare un principio già incluso nella legge n. 1204 del 1971 sulla tutela delle lavoratrici madri, dispone che le gestanti lavoratrici non possono essere licenziate dall’inizio della gravidanza fino al compimento del primo anno del bambino. Analoghe considerazioni valgono anche in ipotesi di accoglienza del minore adottato o in affidamento.

E’ chiaro che al fine di applicare il divieto di licenziamento in gravidanza, lo stato oggettivo di quest’ultima va acclarato con dettagliata ed adeguata documentazione, che attesti in modo netto ed inequivocabile lo stato interessante della lavoratrice donna. Sarà dunque necessario – in caso di contestazione di un licenziamento in gravidanza ritenuto illegittimo – presentare al giudice il certificato medico che comprova la data di inizio della gravidanza.

Ricordiamo opportunamente che il divieto di licenziamento in gravidanza si estende dalla data del concepimento fino – come detto sopra – al primo anno di età del bambino. E’ chiaro che stabilire il momento del concepimento non è sempre facile. Ecco dunque l’utilità dell’applicazione della presunzione legale che afferma che il concepimento deve darsi per avvenuto 300 giorni prima della nascita del bambino.

Le eccezioni al divieto e la giusta causa

Il legislatore ha previsto l’applicazione di un generale divieto di licenziamento in gravidanza, ma – come detto – non si tratta di un divieto assoluto. Ciò in quanto sussistono eccezioni, per le quali il rapporto di lavoro può cessare anzitempo, nonostante lo stato di gestazione.

Infatti, ai commi 3 e 4 dell’art. 54 del d.lgs. 151 del 2001 è possibile scoprire che il divieto di licenziamento non vale nelle seguenti ipotesi:

  • colpa grave da parte della lavoratrice, che rappresenta una giusta causa per la risoluzione, ovvero la rottura del rapporto di lavoro in essere;
  • completamento della prestazione o delle prestazioni per cui la lavoratrice era stata a suo tempo assunta;
  • cessazione dell’attività dell’azienda in cui la lavoratrice è occupata;
  • esito negativo del periodo di prova; ma permane il divieto di discriminazione di cui all’art. 4 della legge n. 125 del 1991 sulle pari opportunità uomo-donna a lavoro, e ulteriori modifiche;
  • risoluzione del rapporto di lavoro per la scadenza del termine.

Da questo quadro, ne ricaviamo che quando opera il divieto di licenziamento in gravidanza, la lavoratrice non può subire la sospensione del rapporto di lavoro, tranne nel caso in cui sia sospesa l’attività d’impresa e del reparto in cui è collocata. Inoltre, la lavoratrice in gravidanza non può essere messa in mobilità per licenziamento collettivo in base alla legge n. 223 del 1991 sul mercato del lavoro.

Se pensiamo, in particolare, al licenziamento in gravidanza per giusta causa, facciamo riferimento a tutte quelle ipotesi in cui l’inadempimento della lavoratrice è talmente grave da ledere in modo irreparabile il rapporto di fiducia tra datore di lavoro e lavoratrice, tanto da non poter consentire, neanche in via provvisoria, la continuazione del rapporto stesso. D’altronde, in caso di giusta causa, l’azienda riceve un danno grave o molto grave a causa del comportamento della lavoratrice o del lavoratore. Casi tipici di questo tipo di licenziamento sono quelli legati al furto di merce, alla commissione di reati in azienda contro i colleghi o i superiori o ai danni prodotti ai beni aziendali.

Come tutelarsi contro questo licenziamento?

Se questo è lo schema della legge, tuttavia nella prassi non è ipotesi remota che il datore di lavoro faccia pervenire la lettera di licenziamento alla lavoratrice incinta, nonostante la particolare situazione non rientri nelle eccezioni che giustificano il licenziamento in gravidanza, e che lo rendono legittimo.

In queste circostanze, la lavoratrice incinta, che rischia il posto di lavoro, può comunque tutelarsi, essendo in gioco una tutela ad hoc.

Infatti, in base alle norme di legge vigenti, il licenziamento in gravidanza è sempre nullo, laddove non rientri nelle eccezioni di cui sopra. Ed analogamente è nullo anche il licenziamento collegato alla domanda o alla fruizione del cd. congedo parentale o alla malattia del figlio.

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Per far valere la nullità del licenziamento, la donna dovrà intraprendere le vie legali, e rivolgersi al giudice del lavoro in modo che, con provvedimento giudiziario, sia stabilito l’obbligo di reintegrazione sul posto di lavoro. Ma non solo: il giudice stabilirà anche ciò che alla lavoratrice spetta di diritto, ovvero retribuzioni e contributi previdenziali e assistenziali arretrati, ossia maturati dalla data del licenziamento illegittimo fino alla data di reintegrazione. La motivazione di ciò è semplice: per legge, se il licenziamento è nullo, è da ritenersi come mai esistito e, conseguentemente, il giudice stabilisce che il rapporto di lavoro non è stato mai interrotto.

Concludendo sul tema del licenziamento in gravidanza, se la donna lamenta pressioni psicologiche e comportamenti del datore di lavoro che possono consistere in minacce o in lettere di licenziamento infondate, è buona regola affidarsi senza indugio ad un legale competente in particolare in materia di diritto del lavoro, al fine di contestare celermente quanto sostenuto dal datore di lavoro ed ottenere il riconoscimento delle proprie ragioni in tribunale.

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L'autore: Claudio Garau

Laureato in Legge presso l'Università degli Studi di Genova e con un background nel settore legale di vari enti e realtà locali. Ha altresì conseguito la qualifica di conciliatore civile. Esperto di tematiche giuridiche legate all'attualità, cura l'area Diritto per Termometro Politico.
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