Prometeo e la classe dirigente ucraina

Pubblicato il 24 Ottobre 2012 alle 18:06 Autore: Marco Residori
classe dirigente ucraina

“Zeus non era favorevole agli umani, anzi aveva deciso di distruggerli: non approvava la gentilezza di Prometeo per le sue creature e considerava i doni del titano troppo pericolosi, perché gli uomini in questo modo sarebbero diventati sempre più potenti e capaci”. Il racconto sulla classe di interessi politico-economica ucraina parte da qui.

Sostituire a Zeus i nomi dei vari Yanukovich, Akhmetov, Kolesnikov, Lyovochkin, Firtash e Boyko, permette infatti di raccontare il meccanismo attraverso il quale questa élite di interessi auto-conserva il proprio potere, impedendo ai vari Prometeo, i giornalisti Gondgadze, Breus, Oleksandrov, Klymentyev, di ribaltare gli equilibri di potere su ciò che essi considerano il loro feudo, l’Ucraina. Pandora, punizione divina alle ripetute sfide di Prometeo, presa rassegnatamente in sposa da Epimeteo, mosso dal desiderio di evitare nuove punizioni al fratello, prende invece le sembianze di coloro che ogni giorno negano l’esistenza di un radicamento, di una capillarizzazione, della dilagante corruzione e del “vincente” modus operandi che perpetra la legittimazione del potere dei suddetti. Come Pandora, attraverso le loro omertose negazioni quotidiane, essi hanno scoperchiato il vaso, custodito gelosamente da Epimeteo, nel quale Prometeo aveva chiuso tutti i mali che potessero tormentare l’uomo: la fatica, la malattia, la vecchiaia, la pazzia, la passione e la morte. Questi, attualizzati e conformati alle proprietà che solo i mali di un paese in transizione e sotto il controllo di due pretesi fuochi amici, Unione Europea e Russia, conoscono, sono usciti e immediatamente si sono sparsi tra gli uomini. Solo la speranza, rimasta nel vaso tardivamente richiuso, da quel giorno ha sostenuto gli uomini anche nei momenti di maggior scoraggiamento. È così infatti, che la possibilità di avere a disposizione un popolo il cui unico appiglio è la speranza, in un sistema dove solo formalmente vige il diritto e quindi ogni tentativo di ribellione può essere soffocato arbitrariamente, fonda l’autorità sulla quale trova fondamento il potere del élite oggi al comando. Un’autorità che, contrariamente a quanto ci si debba aspettare, non trova fondamento in una legittimazione razionale e legale del potere, così come avviene in tutti gli Stati di diritto, ma nella tradizione, riportando in auge il patriarcalismo di Stato. Weber, dissertendo sui temi di Sociologia del potere, enumera i seguenti rapporti relazionali tra le forme di patriarcalismo: “il potere esercitato dal padre di famiglia, dal marito, dall’anziano della famiglia o dall’anziano del gruppo parentale sui consociati; quello del signore e del patrono sugli schiavi, sui servi, sui liberti; quello del signore sui servi domestici e sui funzionari domestici; quello del principe sui funzionari della casa e della corte, sui ministeriali, sui clienti e sui vassalli; quello del signore patrimoniale e del principe (padre della patria) sui sudditi”. Aggiunge poi, al fine di chiarire come l’autorità tradizionale venga esercitata e legittimata, “è proprio del potere patriarcale (e di quello patrimoniale che in esso rientra come caso particolare) che accanto ad un sistema di norme inviolabili, considerate assolutamente sacre, la cui violazione comporta sanzioni magiche o religiose, esso conosce anche il dominio del libero arbitrio e della grazia da parte del signore, che in linea di principio giudica soltanto secondo relazioni personali e non oggettive, ed è in questo senso irrazionale”. Il secondo elemento che ci permette di indagare la pervasività del modus operandidell’élite al potere è, a noi, molto familiare, prossimo, fin troppo conosciuto. L’innominabilità dell’autorità tradizionale, del suo onore, è una pratica identica a quella che vige, in Italia, nelle cosiddette terre di mafia. I boss, qui raffinatamente chiamati oligarchi, sono infatti non solo temuti, ma come da consuetudine italica, anche rispettati, ammirati, ed impossibile è pronunciare il loro nome invano, innalzandoli a sorta di semi-dei. La gente, interrogata sulle illustri figure, ricorre ad epiteti, quali il Presidente dello Shaktar per definire Akmetov, il presidente di Naftogaz Ukraine per definire Boyko, i presidenti di RosUkrEnergo per definire Firtash e Lyovochkin, per il timore di nominare persone, che in perfetta coerenza con le terre di mafia, si sa, è meglio non nominare.

classe dirigente ucraina

Gli effetti di questo meccanismo perverso sono identici a quelli riscontrati nei territori in questione: perpetrazione e contribuzione alla capillarizzazione di un sistema deviato, auto-conservazione della mentalità e del potere dei boss-oligarchi, impedimento a sviluppo e cambiamenti nella società. Ciò che cambia è la scala del fenomeno. Se infatti in Italia, nonostante i business della criminalità organizzata abbiano scala nazionale, la riverenza descritta è ancora patrimonio esclusivo delle suddette terre di mafia; qui, invece, la dimensione nazionale dei business degli oligarchi trova speculare corrispondenza anche nella riverenza garantita loro. Seppur più accentuata nelle regioni dell’Est, terre da cui questi hanno incominciato la loro scalata al potere, essa è infatti garantita anche nelle regioni dell’Ovest, assicurando così loro il rispetto e l’innominabilità su dimensione nazionale.

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L'autore: Marco Residori

Marco Residori, studente presso il corso di laurea "Mass media e Politica" della facoltà di Scienze politiche "Roberto Ruffilli" (unibo), nato nel 1988 e cresciuto a Milano. Aree di interesse/ricerca: sociologia dei consumi culturali e comunicativi, zone di frontiera tra ue-nuova europa (nuove russie e balcani) attualmente vive in Ukraina. Il suo blog personale è "Crossbordering"
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