L’ultima parola alla Rete
Detto questo, occorre però un bagno di realismo, innanzitutto giuridico. Da un lato, infatti, l’autonomia del Parlamento (e, in questo caso, di un gruppo parlamentare) potrebbe dirsi salvaguardata perché nei fatti è proprio il singolo gruppo a decidere, in piena libertà, di sottoporsi al giudizio di un proprio gruppo di riferimento (dunque gli attiVisti). Dall’altro, si deve anche riconoscere che l’espulsione dal gruppo, qualora avvenga, non fa perdere al singolo parlamentare le proprie prerogative, cambiando solo la cornice (il gruppo) in cui questi le esercita: la votazione on line violerebbe la Costituzione se comportasse la decadenza automatica da deputato o senatore della persona sanzionata, ma dal momento che questa mantiene il proprio incarico, è in linea con l’interpretazione che oggi si dà dell’articolo 67.
Il bagno di realismo, peraltro, dev’essere soprattutto politico e sociale. L’idea di affidare il destino di un parlamentare al voto di un gruppo di persone a consistenza variabile (nel regolamento del gruppo M5S Senato si parla di maggioranza dei votanti, senza alcun quorum) può legittimamente non piacere, ma nessuno potrebbe seriamente sostenere che sia preferibile l’influenza dei partiti che si è registrata da sempre nella vita politica della Repubblica. È un dato storico che la “disciplina di partito” abbia condizionato quasi in ogni momento il comportamento (dai voti sulle leggi all’espressione della fiducia) degli appartenenti ai vari gruppi parlamentari, che spesso coincidevano con i partiti; non sono certo mancate le espulsioni dai gruppi dei soggetti che non si conformavano alle direttive dei partiti “retrostanti”. Si badi, neanche in quel caso dall’espulsione poteva derivare alcuna decadenza: anche allora sarebbe stata illecita (e inefficace) una pratica come le “dimissioni in bianco”, mediante una lettera precompilata e firmata dal parlamentare, cui il Presidente del gruppo aggiunga la data per far cessare da quel momento il mandato del parlamentare “disobbediente”.
Oggi come allora, dunque, le dimissioni sono lasciate all’iniziativa e alla coerenza di ciascun eletto e non è possibile costringere nessun “reprobo” alle dimissioni (anche se è probabile che qualcuno voglia le dimissioni della Gambaro, come in passato qualcuno le avrebbe volute da Riccardo Villari, Giulio Tremonti, Domenico Scilipoti, dai leghisti “ribaltonisti” del 1994 e da tanti altri). Oggi, tuttavia, c’è se non altro l’indicazione a chiare lettere del procedimento decisionale, si ammette chiaramente che a decidere sull’espulsione sarà qualcuno di esterno (e da cui, almeno indirettamente, dipende la presenza del singolo parlamentare nell’aula): è qualcosa di più onesto, a ben guardare, di quanto è sempre accaduto nelle altre formazioni politiche, in cui di fatto erano i dirigenti dei partiti – in parte presenti in Parlamento, ma non sempre – a prendere ogni decisione su chi doveva lasciare il gruppo, anche se di fatto tutto figurava come frutto di democraticissime votazioni interne. Si può non condividere quello che accade in questi giorni, a patto di non pensare in automatico e in modo acritico che «era meglio prima».