Luci e ombre delle proposte di Maria Chiara Carrozza sull’università

Pubblicato il 11 Luglio 2013 alle 09:28 Autore: Andrea Mariuzzo

In tutto questo, credo di poter leggere la benefica influenza di un gruppo di lavoro in cui la Carrozza ha avuto un ruolo di rilievo, sia per la migliore conoscenza di alcuni aspetti della vita dell’organismo-università dal suo interno, sia per la presenza di spunti che da tempo rappresentano le punte più avanzate della riflessione sull’università in atto in Toscana, regione in cui formazione superiore e ricerca scientifica hanno un ruolo sociale ed economico forse unico in Italia, e che non a caso riesce a ottenere risultati sempre relativamente buoni per la qualità dei servizi del diritto allo studio, per l’offerta dottorale e per la collocazione internazionale dei suoi atenei di punta. Si tratta di un passo in avanti rispetto alla genericità delle prese di posizione di cui si era spesso reso responsabile i passato Marco Meloni, nei fatti incapace di uscire dalle retoriche sul “merito” e sull’“eccellenza” che già tanti danni ha prodotto in questi anni, ma abbastanza generiche da inglobare tutta la vasta serie di interessi e pulsioni contrastanti che il PD cerca di coagulare attorno a sé nel mondo universitario.

Detto questo, in più casi gli strumenti e i percorsi che si intendono mettere in opera per il conseguimento delle finalità prefissate mi lasciano un po’ perplesso, sia quando sono chiaramente esplicitati, sia soprattutto quando sono coperti da un velo di oblio che, generalmente, serve a nascondere incertezze e preoccupazioni di fronte alla necessità di un supplemento di dibattito e di contrattazione tra le parti interessate.

Per cominciare, il problema dei problemi: partendo dal presupposto che occorre rispettare vincoli di bilancio (che ce li abbiano imposti è irrilevante: con questo debito, non chiudere tutti i prossimi trent’anni con un saldo positivo nel bilancio sarebbe semplicemente da incoscienti, e forse il fatto che il resto del mondo si rifiuti di finanziarci se non a condizioni a prova di bomba è quasi un bene), e tenendo conto che non si può pensare a un ulteriore aumento del carico fiscale se non nell’ambito di una riforma generale delle modalità di imposizione che richiederebbe anni, i soldi per investire in conoscenza da dove arriveranno? In altri termini, quali altre voci di spesa saranno tagliate senza pietà? Quali settori dipendenti dalla benevola concessione di soldi statali dovranno soffocare in una lunga e dolorosa agonia? Quali elettori, quindi, dovranno evitare come la peste di votare PD perché dalla loro morte dipenderà la sopravvivenza di strutture universitarie considerate strategicamente più importanti? Evidentemente, la gerarchia delle priorità di chi dovrà essere salvato dagli stanziamenti dei prossimi anni e di chi dovrà perire è ancora da fare, e sarà oggetto di un prevedibile tira-e-molla tra i ministeri, che tradizionalmente in Italia hanno come compito privilegiato garantire voce in capitolo a chi supporta il ministro in carica e le sue strutture di consenso. Un primo abbozzo di soluzione per andare oltre questa guerra di parrocchie sembra essere l’istituzione di un’Agenzia di programmazione e finanziamento della ricerca, elemento su cui si dovrà basare un più ampio coordinamento intergovernativo delle politiche di ricerca prima gestite da dicasteri diversi. Questo lavoro di armonizzazione potrebbe anche rendere meno asfittiche le modalità di gestione del problema degli istituti di produzione della conoscenza, ma i criteri di applicazione sono descritti in modo insufficiente, e tutto sembra più un auspicio che un autentico spunto programmatico già pronto per la prova dei fatti.

Sulla questione del dottorato di ricerca, al di là dell’individuazione di alcune criticità fondamentali, restano irrisolti alcuni punti di primaria importanza sul piano concreto. Si vuole chiarire, finalmente, che i dottorandi di ricerca vivono un percorso di formazione, e che quindi è necessario rendere questo percorso in primo luogo il più efficace e competitivo possibile sul piano dello sviluppo di un ventaglio di competenze solido e versatile, evitando così di trasformare i giovani laureati che scelgono l’opzione dottorale in “ricercatori usa e getta” da usare semplicemente come uomini di fatica ai gradini più basso della catena gerarchica di un progetto di ricerca. Tutto questo dovrà naturalmente comportare, e lo si dice a chiare lettere, l’utilizzabilità della formazione dottorale in tutto il mondo delle occupazioni ad alto coefficiente intellettuale. I modi in cui ai dottori saranno aperte le opportunità professionali lasciano perplessi, visto che non si va al di là di un riconoscimento del titolo di studio nei concorsi. Ciò da un lato è mortificante, visto che il dottore di ricerca deve potersi affermare in quanto più competente degli altri in alcuni ambiti professionali, eventualmente a scapito di chi quelle competenze non ha, non certo perché una legge obbliga alla finzione di attribuire forzosamente un valore a un pezzo di carta. Ma è anche in netta controtendenza con l’idea, secondo me buona proprio perché pragmatica su un tema troppo spesso ideologizzato, di “eliminare l’uso distorto” del “valore legale del titolo di studio” che troppo bene conosciamo nelle selezioni pubbliche. Pure la differenza all’apparenza quasi nulla nel regime contrattuale tra i dottorandi (che sono studenti) e i ricercatori ai primi livelli di carriera (che sono professionisti) sembra contraddire quanto detto in precedenza sulla ricerca di un “vero ruolo” per il Ph.D., e sembra piuttosto voler accontentare le associazioni rappresentative che, al contrario, vedono in esso l’unica funzione di selezionare ricercatori in pectore nei fatti già inseriti nelle carriere accademiche al momento della vittoria del posto dottorale, anche a costo di ridurre al minimo il numero di posti disponibili in relazione alle disponibilità dei ruoli.

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L'autore: Andrea Mariuzzo

Piemontese per nascita e per inclinazione spirituale, ricercatore (precario) alla Scuola Normale di Pisa dopo esperienze in Francia, Inghilterra e USA, attualmente si occupa di storia delle istituzioni universitarie. Gestisce il blog "A mente fredda" su "Il Calibro".
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