Se a Napolitano si chiede l’impossibile

Pubblicato il 19 Agosto 2013 alle 21:16 Autore: Gabriele Maestri

Nelle prime ore di martedì scorso, le dichiarazioni erano soprattutto speranzose: per i fedelissimi di Silvio Berlusconi, la nota di Giorgio Napolitano era soddisfacente perché riconosceva il ruolo del leader e del Pdl e sembrava aprire a una soluzione.

Giusto la mattina dopo, però, qualcuno ha sentito il bisogno di dire che dal Quirinale ci si attendeva di più sul “caso Berlusconi”.

Col tempo, la pattuglia dei “quidpluristi” si è ingrossata: oggi si sono accodati Formigoni, Cicchitto, Polverini, Biancofiore e Leone, fino al fiele della Santanché che bolla la nota di Napolitano come “irricevibile”. Anche il capogruppo al Senato Renato Schifani oggi ha ammesso che “Nel messaggio del Capo dello stato non ho trovato quello che avevamo chiesto. Le posizioni del Capo dello Stato si rispettano, ma ci aspettavamo di più“. Il fatto è che quel “di più” che il Pdl chiede a gran voce, il Presidente non può farlo.

Cos’ha detto dunque Napolitano? Innanzitutto ha chiarito una volta di più che, nel suo modo (legittimo) di interpretare il ruolo presidenziale, il potere di scioglimento delle Camere spetta esclusivamente a lui. Nessun ruolo avrebbe il governo, nemmeno in “compartecipazione” al potere (anche se vari costituzionalisti immaginano proprio quella struttura): il governo in carica, insediato da poco più di cento giorni, dovrebbe pensare a durare, mentre la scelta di concludere anzitempo la legislatura è (parole di Napolitano di nove mesi fa) «prerogativa propria ed esclusiva del Presidente della Repubblica».

giorgio napolitano quirinale

Morale, le elezioni sono “impraticabili”, punto. Pure se si accordassero Pdl e altre forze per ottenerle. Ciòè, magari alla fine Napolitano non riuscirebbe a dare l’incarico di governo e le Camere dovrebbe scioglierle comunque, ma sarebbe una sua decisione. Del resto, sono stati proprio i partiti maggiori, in aprile, in un momento di crisi del sistema, a pregare l’inquilino uscente del Colle perché non traslocasse e si sciroppasse altri sette anni al Quirinale. Napolitano è rimasto e ora ha tutti i titoli per pretendere che chi lo ha eletto non lo costringa a sciogliere un Parlamento nuovo nuovo. E, soprattutto, a scioglierlo prima che sia approvata una nuova legge elettorale o, per lo meno, siano corretti i difetti più pesanti che rischiano di far saltare quella attuale.

Il Presidente si è poi concentrato sulla grazia: altro potere che (lo ha detto la Consulta nel 2006) spetta solo a lui, senza che il ministro della giustizia possa opporsi. Per un istituto così antico, è normale che Napolitano si sia richiamato soprattutto alla prassi e ai precedenti, soprattutto quelli più recenti. Che dicono, ad esempio, che di norma l’iter per ottenere la grazia non può iniziare senza la domanda proposta dal condannato o dagli aventi diritto, anche se l’art. 681 c.p.p. prevede che si possa procedere d’ufficio: l’idea di avere “condannati più eguali di altri” per aver avuto l’attenzione del Quirinale è sgradevole.

E’ vero che Napolitano, in cinque casi delle 23 grazie concesse (a fronte di 2461 domande ricevute), ha proceduto d’ufficio, ma erano casi particolari (hanno riguardato cittadini austriaci che negli anni ’60 avevano commesso attentati senza provocare morti, con la pena detentiva che si era prescritta). Forse però il Presidente avverte che questo caso è ancora più delicato e che, procedendo d’ufficio, “a furor di parte del popolo”, rischierebbe di guastare il valore umanitario della grazia e il proprio ruolo di organo super partes.

Napolitano definisce il vaglio della richiesta di grazia come «esame obbiettivo e rigoroso – sulla base dell’istruttoria condotta dal ministro della Giustizia – per verificare se emergano valutazioni e sussistano condizioni» per concedere clemenza, senza discutere «la sostanza e la legittimità» della sentenza.

Un esame obiettivo prevede che il Presidente possa tenere conto di  ingiustizie palesi (ma davvero palesi) commesse nel processo e mai riparate. Un esame rigoroso, invece, prevede che si verifichi ogni aspetto della domanda, soprattutto quelli richiesti dal carattere umanitario e “premiale” della grazia: tra questi, anche la tendenziale assenza di altri procedimenti penali in corso (magari punteggiati di condanne), soprattutto se quei processi riguardano fatti successivi a quelli alla base della condanna per cui si chiede clemenza.

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L'autore: Gabriele Maestri

Gabriele Maestri (1983), laureato in Giurisprudenza, è giornalista pubblicista e collabora con varie testate occupandosi di cronaca, politica e musica. Dottore di ricerca in Teoria dello Stato e Istituzioni politiche comparate presso l’Università di Roma La Sapienza e di nuovo dottorando in Scienze politiche - Studi di genere all'Università di Roma Tre (dove è stato assegnista di ricerca in Diritto pubblico comparato). E' inoltre collaboratore della cattedra di Diritto costituzionale presso la Facoltà di Giurisprudenza dell’Università di Parma, dove si occupa di diritto della radiotelevisione, educazione alla cittadinanza, bioetica e diritto dei partiti, con particolare riguardo ai loro emblemi. Ha scritto i libri "I simboli della discordia. Normativa e decisioni sui contrassegni dei partiti" (Giuffrè, 2012), "Per un pugno di simboli. Storie e mattane di una democrazia andata a male" (prefazione di Filippo Ceccarelli, Aracne, 2014) e, con Alberto Bertoli, "Come un uomo" (Infinito edizioni, 2015). Cura il sito www.isimbolidelladiscordia.it; collabora con TP dal 2013.
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