“I soliti comunisti”: l’anticomunismo nel discorso politico italiano dopo il 1989 e il suo ruolo nella ristrutturazione del sistema politico

Pubblicato il 16 Febbraio 2014 alle 11:31 Autore: Andrea Mariuzzo
“I soliti comunisti”: l’anticomunismo nel discorso politico italiano dopo il 1989 e il suo ruolo nella ristrutturazione del sistema politico

l testo riprende, in forma leggermente abbreviata e modificata, il mio intervento alla giornata di studi Culture politiche e partiti nell’Europa contemporanea, organizzata lo scorso 14 febbraio presso il dipartimento di Civiltà e Forme del Sapere dell’Università di Pisa in onore di Franco Andreucci, il docente che oltre dieci anni fa è stato relatore della mia tesi di laurea.

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Nell’ultimo ventennio il tema del comunismo è stato ripetutamente e in vario modo protagonista del dibattito politico italiano, e fino ad anni recenti ha contribuito a individuare alcuni dei punti di frizione e di conflitto più “caldi”. Ciò però è avvenuto in anni in cui l’esperienza storica del comunismo italiano “classico” aveva subito una cesura epocale con la fine del partito depositario di quel ruolo e di quei valori, ed è potuto accadere a causa del riverbero insistente proprio di stilemi e spunti polemici che si erano consolidati nel sistema politico dell’età repubblicana precedente al 1992,  quando una forte presenza del PCI era un elemento peculiare della democrazia Italian-style. Ora che questa parabola sembra chiusa dopo che la crisi, politica oltre che economica, del 2011, e le conseguenze successive hanno portato i protagonisti di quegli anni a modificare profondamente il loro atteggiamento e i loro obiettivi polemici, al punto che ormai iniziano a essere disponibili i primi tentativi di valutazione storico-critica ex post degli anni del cosiddetto “berlusconismo”, sembra opportuno affrontare con l’occhio dello storico la questione della continuità e della potenza nella costruzione del consenso elettorale che l’anticomunismo ha mantenuto nel corso della nostra storia repubblicana.

Il punto di partenza sarà l’aspetto che, sulla base delle ricerche più recenti, ha assunto il discorso anticomunista nella sua emersione nel periodo fondativo del linguaggio politico dell’Italia repubblicana, ovvero negli anni tra il ritorno alla vita legale delle forze politiche e dei gruppi d’opinione che avrebbero caratterizzato l’esperienza democratica, e la “stabilizzazione” del sistema politico a cui si giunse con le elezioni del 1953 e il lento e tormentato passaggio dal centrismo al centro-sinistra. In quegli anni di massima polarizzazione del conflitto, segnato dalla necessità della piena collocazione dell’area di governo italiana nell’alleanza atlantica e dal tentativo di marginalizzare un’opposizione di sinistra divenuta, col tornante del 1947, antisistemica, nacque e si diffuse un’immagine critica del PCI e dell’esperienza comunista internazionale riassumibile in alcuni punti comuni ben identificabili:

1.       l’ateismo materialista che innervava i fondamenti teorici tanto quanto gli atteggiamenti istituzionali dei regimi comunisti al potere e le attitudini culturali dei militanti e delle istituzioni legate alla cultura comunista italiana, e che era incompatibile con una società di così radicata tradizione cattolica;

2.       la violenza autoritaria, così ben espressa nelle vicende dell’URSS e delle democrazie popolari dalle “purghe” degli anni Trenta all’instaurazione dei nuovi governi nei paesi occupati dall’Armata rossa, e che trasparendo anche negli atteggiamenti dei vertici del PCI verso le opposizioni interne rendeva il partito incompatibile con una democrazia liberale che, per sopravvivere, aveva anche il diritto di “proteggersi” da una così grave minaccia nel suo seno;

3.       il “legame di ferro” con una potenza straniera ostile e aggressiva, che rendeva il comunismo una “quinta colonna” costitutivamente inaffidabile sul piano dell’identificazione nazionale;

4.       l’adesione a una politica economica che, rispetto tanto alla scintillante immagine del “sogno americano” quanto alla realtà del “miracolo” economico, si mostrava laddove veniva sperimentata non solo inefficiente nella crescita, ma anche foriera di nuove disuguaglianze sociali.

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Fin dalle prime battute del dibattito politico repubblicano, inoltre, un tratto distintivo di questa galleria di immagini critiche era quello di essere veicolata da una rete di canali di diffusione capace di sfidare il ruolo preminente delle grandi organizzazioni partitiche nell’aggregazione del consenso. Se infatti la Democrazia cristiana e tutto l’associazionismo cattolico e confessionale giocarono un rilevante ruolo di autopromozione come forza di raccolta del voto anticomunista, lo stimolo ad accettare tale discorso come qualificante dell’orientamento elettorale da parte del pubblico venne dall’atteggiamento diffuso in ampi settori della stampa quotidiana cosiddetta “indipendente” (ma in realtà profondamente influenzata dalla ricollocazione di gran parte dei suoi redattori di provenienza liberal-conservatrice di fronte agli schieramenti di guerra fredda), dal Corriere al Messaggero, passando per i più provinciali La Nazione e Il Resto del Carlino, e soprattutto nella stampa settimanale popolare. Negli anni Cinquanta Oggi ed Epoca, testate prodotte da personale spesso identico a quello dei maggiori giornali (Augusto Guerriero, Giovanni Spadolini, Panfilo Gentile, Ugo Zatterin, ecc.), senza però il controllo del ruolo “istituzionale” tradizionalmente attribuito alla stampa quotidiana più autorevole, o giornali più liberi nella forza espressiva a causa dell’evidente impronta satirica, come il Candido di Guareschi, divennero punti di raccolta di un’opinione pubblica generalmente tradizionalista e conservatrice, solo parzialmente e faticosamente politicizzata e per questo caratterizzata da una varietà di intendimenti e di giudizi, ma accomunata dall’accettazione di almeno alcune delle sfaccettature in cui si esprimeva la critica al comunismo, e per questo disposta a raccogliersi in forma condizionata in sede elettorale sotto le insegne dello scudo crociato.

Questo aspetto della diffusione del discorso anticomunista deve essere tenuto in considerazione per capire, innanzi tutto, come mai esso poté mantenersi in vita con una buona continuità di riferimenti e modulazioni del messaggio anche quando, con la cauta “apertura a sinistra” dell’area di governo che accompagnò la presenza sempre più radicata del PCI nelle istituzioni locali e il suo ruolo di quasi-monopolio dell’opposizione parlamentare, in sede partitica al conflitto serrato si sostituì un dialogo spesso spigoloso, ma comunque destinato a sfociare negli anni settanta nei sondaggi per una diretta partecipazione del PCI alla maggioranza. Il celebre invito di Montanelli a “turarsi il naso” alle urne pur di garantire la forza elettorale dell’unico soggetto organizzato alternativo al PCI nel 1976, non diversamente da prese di posizione apparentemente del tutto diverse come i modelli con cui contemporaneamente Giovanni Sartori imputava alla specificità antisistemica del PCI gran parte della responsabilità del malfunzionamento del sistema politico italiano, possono essere ricondotti alla ripresa e alla rielaborazione sulla base dei problemi d’attualità, negli anni cinquanta-sessanta, degli stilemi anticomunisti introdotti così massicciamente nel decennio precedente. I questi casi i timori, per dirli come erano stati riscritti e riadattati da Luigi Barzini jr. nella sua fortunata Inchiesta sul comunismo in Italia del 1954-55, diffusa prima da Corriere e Oggi, e poi in un volume autonomo dalla Mondadori, erano soprattutto per esiti meno violenti ma altrettanto preoccupanti: per la

rivoluzione silenziosa, cortese, che avanza chiedendo il permesso e sorridendo, la rivoluzione fatta con il codice alla mano, senza fretta, di elezioni in elezioni, che può mettere il paese, tra qualche tempo di fronte al fatto compiuto,

o nella denuncia della tendenza dei sindacati e delle organizzazioni da esso controllati a difendere a spada tratta una politica del lavoro e della produzione esplicitamente definita “reazionaria”, così da mantenere intatte le condizioni di povertà diffusa senza le quali sarebbe stato impossibile l’aspro conflitto di classe necessario a mantenere il proletariato italiano su posizioni così radicali.

La permanenza di questo “basso continuo” nel discorso pubblico dell’età repubblicana classica, troppo spesso sottovalutato di fronte al comportamento politico dei grandi partiti eppure così importante per le dinamiche di consenso che interessavano le forze di governo, deve essere tenuta in considerazione per comprendere gli effetti sulla politica italiana del tornante internazionale degli anni Ottanta. In effetti, sul piano globale, la rinnovata delegittimazione che accompagnò (e almeno in parte contribuì a promuovere) la rapida consunzione dell’esperimento del “socialismo reale”, avvenne attraverso la ripresa di spunti che potevano essere agevolmente ricompresi nell’archivio del tradizionale “vario anticomunismo italiano”. L’attacco concentrico trovò infatti i due grandi catalizzatori, sul piano espressivo, nel liberismo reaganiano, che si contrapponeva consapevolmente tanto al dispotismo burocratico di un sistema pesantemente amministrato, quanto all’inefficienza di un’economia pianificata ormai ingessata, priva dei minimi spazi di dinamismo e avvitata su se stessa, e nel pontificato di Giovanni Paolo II, che riportava al centro della chiesa post-conciliare la denuncia delle “Chiese del silenzio” e i drammi causati da un regime di materialismo trionfante, rinunciando solo apparentemente al corollario di intransigente riproposizione del magistero gerarchico come strada privilegiata alla salvaguardia del bene comune e degli equilibri sociali tradizionalmente sotteso alla battaglia anticomunista.

Il confronto in questi termini col Partito comunista italiano, responsabile per parte sua di non aver portato fino alle estreme conseguenze la stagione di profonde critiche al movimento comunista internazionale che nei due decenni precedenti ne avevano caratterizzato la posizione, e di essersi alla fine legato troppo strettamente alle vaghe speranze di “autoriforma” gorbačëviane, portò alla ripresa delle suggestioni estere e alla riorganizzazione di questi punti-cardine del discorso critico verso il PCI, grazie in particolare al ritrovamento da parte delle voci critiche sparse di un punto di riferimento nel sistema istituzionale pronto a garantire il proprio appoggio. Il Partito socialista di Bettino Craxi, infatti, fece della destrutturazione sul piano culturale di responsabilità e corresponsabilità del comunismo italiano un’arma polemica nella sua competizione col PCI a sinistra. Negli anni della profonda ridiscussione della matrice democratica del gramscismo e delle accese polemiche sulla natura intrinsecamente autoritaria del leninismo politico che animarono le pagine di Mondoperaio, accanto a intellettuali e pensatori di collocazione socialista “storica”, come Massimo Salvadori e Luciano Cafagna, trovarono spazio tanto esponenti di aperta matrice liberista, che resero i temi del valore della libertà e del dinamismo imprenditoriale moneta corrente nelle proposte programmatiche socialiste, quanto pensatori cattolici come don Gianni Baget Bozzo, da anni impegnato nella condanna degli orientamenti concilianti del cattolicesimo politico verso il laicismo della “società radicale”, sulla base di un recupero del primato magisteriale gerarchico rispetto alle conclusioni del Vaticano II.

SEMINARIO SUL FEDERALISMO

Dal nostro punto di vista, è significativo che da un lato la produzione di pensiero più direttamente ispirata all’autonomismo socialista vide esaurire abbastanza rapidamente il proprio potenziale di condizionamento politico, per tornare a circolare quasi solo nel dibattito colto di fronte al rapido collasso del sistema dei partiti repubblicano che proprio nell’implosione del PSI trovò il proprio epicentro; dall’altro, invece, la piattaforma polemica più generica nei confronti dell’esperienza comunista italiana e internazionale trovò a valle del 1992 una definitiva cittadinanza nel dibattito pubblico. Ciò avvenne proprio perché la tendenza a individuare in modo semplificato nella rilevante presenza politica comunista la radice di alcuni limiti di sistema delle istituzioni e nella vita economica e sociale italiana rivelò in poco tempo il proprio ampio capitale di consenso, e travalicando gli steccati delle grandi formazioni politiche di massa proprio quando esse mostravano la loro inadeguatezza rappresentò un punto di congiunzione tra questi circoli politico-culturali e la galassia delle formazioni radicalmente critiche della “prima repubblica” al tramonto, dalle nuove “leghe” territoriali alla destra tradizionalmente estranea all’“arco costituzionale”. In questi termini si spiega l’impegno che l’establishment di Forza Italia profuse per trovare una legittimazione politica e intellettuale del rinnovamento programmatico di cui intendeva farsi portatore nell’opposizione al comunismo, non solo prima delle elezioni del marzo 1994, durante l’emergenza di una campagna elettorale vissuta a passo di carica, ma soprattutto dopo. È alla fine di quell’anno che nacque Ideazione, la testata culturalmente più ambiziosa della nuova area politica, e il laboratorio più avanzato nel tentativo di dare sostanza e maggiore organicità a un anticomunismo che, dopo essere stato per tanto tempo uno degli elementi di arsenali più complessi al servizio di diverse famiglie politiche, diventava improvvisamente il caposaldo principale su cui descrivere una identità politica.

Il periodico, fondato dal giornalista ex “missino” Domenico Mennitti e dal filosofo spiritualista Vittorio Mathieu, trovò immediatamente nelle riflessioni di Baget Bozzo una impalcatura concettuale d’insieme incentrata sulla conciliazione tra dottrina sociale cattolica e promozione della libertà economica, in decisa opposizione alle possibili derive autoritarie dello statalismo, e cercò di tradurla in una più precisa idea programmatica di governo, destinata paradossalmente a essere espressa proprio quando l’esperienza dell’esecutivo guidato da Berlusconi giungeva alla conclusione, ma comunque significativa perché pensata fin da subito come base per una successiva sfida elettorale. Fin dal primo numero il giovane giurista Giuseppe Valditara, destinato negli anni successivi a una carriera parlamentare, istituiva un diretto parallelo tra i fatti del 1989 nell’Europa centro orientale e la “rivoluzione italiana” del 1994:

Nel  1989 è soffiato nei paesi dell’Europa orientale un vento di libertà che ha spazzato via i regimi comunisti che li opprimevano. Nel 1990 ha cominciato a concretizzarsi in Italia un  rifiuto sempre più cosciente di un certo tipo di organizzazione e di gestione dello Stato e dei valori che stavano alla base di quella organizzazione e di quella gestione. I fatti italiani e quelli dell’est, pur in un contesto geopolitico diverso, presentano indubbi punti di contatto non foss’altro perché i valori e i fenomeni contestati in Italia caratterizzavano in forme affini quei regimi comunisti.

Il confronto del nuovo bipolarismo in formazione, proseguiva l’autore, era quindi tra la “società aperta”, lo “Stato al servizio del cittadino”, l’“autogoverno palestra di democrazia e di libertà”, un sistema di esazione fiscale leggero che lasci a chi lavora di “godere il frutto della propria legittima fatica”, e una prospettiva che di fatto spingeva verso lo Stato “dirigista, interventista e dunque con una burocrazia necessariamente mastodontica, situato in una posizione di supremazia assoluta nei confronti del cittadino, trattato magari alla stregua di un suddito”, che si arrogava il compito di “eguagliare le posizioni economiche dei cittadini”, attraverso un rapporto con la politica fiscale che la considerava “in primo luogo espressione di solidarietà anche quando privava di una buona fetta di guadagno al fine primario di garantire la redistribuzione e uno Stato assistenziale, penalizzando gli investimenti  e mortificando l’intraprendenza”.

Questo impasto linguistico si è poi consolidato di fronte a una compagine governativa in cui il diretto erede della struttura comunista italiana era forza determinante, visto che poco dopo le elezioni dell’aprile 1996 Eugenia Roccella Cavallari rendeva ancora più stretto il legame tra caso italiano e fallimento sovietico, con parole come:

Il crollo del comunismo, in Italia, in realtà, non c’è mai stato, perché è mancata totalmente una critica radicale delle cause del disfacimento del sistema sovietico. Non c’è stata una seria analisi della crisi economica dell’Urss ; né, dopo anni di polemica anticonsumistica in Occidente, un ripensamento del problema contrario della scarsità dei beni ; non c’è stata una grande riflessione sui guasti profondi operati dalla pianificazione economica, per tanti anni considerata panacea per tutti i mali capitalisti.

Erano parole, dicevo, che stravolgevano il significato della pur reale esilità della proposta politica d’insieme che caratterizzava il PDS e che sarebbe stata per anni la cifra delle forze politiche ad esso succedute, in vista di un doppio appuntamento giubilare, il cinquantenario della vittoria “atlantica” in Italia del 1948 e il decennale della caduta del Muro di Berlino l’anno successivo. Attraverso la celebrazione di queste memorie, rafforzata anche dalla rapida pubblicazione per Mondadori dell’edizione italiana di Le livre noir du communisme nel 1998, dalla diffusione a livelli inimmaginabili per la letteratura saggistica in Italia negli ultimi trent’anni, e dalla profonda distorsione del contributo scientifico di alcuni dei saggi migliori della raccolta fino a destituire un contributo per molti aspetti significativo di ogni credibilità critica, il discorso berlusconiano riprese vigore nella sua “scalata” agli appuntamenti elettorali successivi, secondo tappe scandite a regola d’arte e poi riprese nelle pubblicazioni a circolazione relativamente ampia degli anni 2000-2001, L’Italia che ho in mente e il meno incisivo Discorsi per la democrazia, con Una storia italiana a completare la trilogia durante la campagna per le elezioni politiche. Probabilmente per il tramite di editorialisti di Ideazione particolarmente virulenti nella critica al governo e allora vicini all’inner circle berlusconiano, come Paolo Guzzanti, i discorsi berlusconiani in tali occasioni hanno rappresentato il momento di pieno assorbimento, di semplificazione immediata, di “volgarizzazione”, dei più complessi riferimenti di critica anticomunista attualizzata del periodico culturale d’area.

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Questo passaggio risulta cruciale per comprendere un altro fondamentale elemento di continuità del discorso anticomunista post-1989 e del suo ruolo nel sistema politico italiano, questa volta più strutturale della “stretta” elaborazione di contenuti. Infatti, nella sua forma immediata e priva di specificazioni e distinzioni complesse, l’anticomunismo prodotto negli interventi pubblici di Berlusconi diventava il linguaggio adeguato per una comunicazione politica diretta, sviluppata fuori dei canali tradizionali. Nella circolazione di questo tipo di discorso, i potentissimi mezzi editoriali e televisivi messi in campo dalle aziende di proprietà del principale leader della coalizione di destra a partire dal 1994 si rivelarono vincenti, senz’altro per la dimensione del loro sistema, per la capacità di diffusione dei messaggi e per il controllo sempre più stretto che gli apparati politici attorno a Berlusconi hanno imposto ai prodotti editoriali del gruppo, ma forse più ancora per la loro natura di media versatili e “generalisti”, elementi aggregatori di un pubblico non politicizzato, non chiaramente identificato nelle forze tradizionali e che per certi versi “subiva” l’attività politica ed elettorale più che ricercarla. Un pubblico che poteva essere identificato in continuità con quello del discorso anticomunista tradizionale dell’età repubblicana classica, per la sua lateralità alla militanza e al riferimento alle istituzioni partitiche, e per la sua apertura a strumenti di informazione non del tutto connotabili nell’area della discussione politica.

È soprattutto tenendo conto di questa continuità nei canali di diffusione e nell’intercettazione del pubblico, forse più ancora che nei contenuti che si chiarisce il ruolo strategico del periodico e insistente ricorso al discorso identitario anticomunista per l’aggregazione del consenso attorno alla coalizione berlusconiana. Grazie ad esso, infatti, si possono spiegare i risultati delle indagini sui comportamenti elettorali dei fautori dell’area di centro-destra ben rilevati nel corso degli anni, con generale convergenza, dalle rilevazioni del gruppo di studio di Ilvo Diamanti e dal CISE di Roberto D’Alimonte: da un lato, dice Diamanti,

la base elettorale dei partiti dell’alleanza guidata da Berlusconi evoca quella frattura anticomunista che ha condizionato il sistema politico della prima Repubblica e appare più debole dove era più forte il Fronte Popolare nel 1948;

dall’altro, ancor più significativamente, proprio portando alla ribalta un elemento polemico caratterizzato dal successo al di fuori degli apparati comunicativi della politica “organizzata” e garantendogli un ruolo pivotale nella presentazione della sua proposta programmatica, il discorso berlusconiano si è dimostrato capace di coinvolgere massicciamente nella competizione elettorale settori dell’opinione pubblica che vivevano come un peso, un fastidio o comunque un aspetto sociale secondario l’impegno politico, specialmente quello declinato nelle forme più tradizionali di militanza e di appartenenza.

In conclusione, si può confermare come impostare una ricerca sul principale crinale di conflitto dei discorsi politici contrapposti mantenga le sue potenzialità euristiche anche in una situazione così particolare, in cui il principale termine di opposizione non è più esistente e rivive soprattutto perché evocato dall’avversario. Da un lato, il discorso anticomunista si mostra ancora una volta capace di adattarsi ad ogni famiglia politica perché adeguato a farne risaltare gli aspetti caratteristici: è infatti attraverso la ricomposizione di un’immagine del comunismo adeguata alla bisogna se il fronte berlusconiano si è appropriato di, e ha impastato in un insieme almeno apparentemente coerente, alcuni dei temi costitutivi delle sue battaglie politiche, dal rudimentale atteggiamento pro business, al tentativo di imbrigliare l’azione della magistratura in nome della difesa della libertà personale, fino all’acquisizione pressoché assoluta di alcune delle posizioni più decise del magistero cattolico sulle questioni del fine vita e del trattamento del concepimento, trovando almeno per alcuni di questi argomenti un pubblico già pronto all’accoglimento di dimensioni quasi insospettabili.

Accanto a ciò, però, uno studio del discorso anticomunista, della sua diffusione e della sua efficacia può dirci molto anche della controparte, in questo caso chiamata in causa suo malgrado e forse indebitamente, visto il distacco che i gruppi politici egemoni della coalizione di centro-sinistra reclamavano dall’esperienza comunista del Ventesimo secolo. È senz’altro vero che la ripetizione della critica al comunismo, grazie al suo successo assicurato dall’ampia presenza sociale del discorso, dava la possibilità a un ampio pubblico di crogiolarsi in schemi mentali consolidati, surrogava di fatto una reale progettualità politica negli strati sociali abituati alla delega passiva a ideologie preconfezionate delle proprie esigenze, e permetteva la persistenza dei comodi abiti mentali del passato. Tuttavia, la difficoltà a rispondere a questo genere di campagna semplicemente scrollandosela di dosso attraverso un atteggiamento dettato da contenuti precisi, e la tendenza eccessivamente frequente a controargomentare sullo stesso terreno senza però riuscire a disinnescare definitivamente la polemica, restavano. Ciò a dimostrazione che effettivamente il mancato sviluppo di una cultura politica alternativa, che suggellasse il distacco della classe dirigente maturata nel PCI dalla tradizione del movimento comunista internazionale portato avanti con effettiva convinzione e profondità dagli anni Sessanta in poi, ha rappresentato una tara reale. Si potrebbe quasi affermare che lo spazio di manovra per l’attualizzazione di una contrapposizione che i fatti avrebbero dovuto dare per sorpassata era fornito da un’area post-comunista italiana sorprendentemente simile, nella propria tendenza dopo la crisi del modello di riferimento a  limitarsi alla mera gestione dell’esistente e all’autoriproduzione, alle classi dirigenti post-comuniste al potere in quei paesi dell’Europa orientale un tempo oggetto di veementi critiche da parte italiana per l’immobilismo e la fragilità delle opzioni culturali.

L'autore: Andrea Mariuzzo

Piemontese per nascita e per inclinazione spirituale, ricercatore (precario) alla Scuola Normale di Pisa dopo esperienze in Francia, Inghilterra e USA, attualmente si occupa di storia delle istituzioni universitarie. Gestisce il blog "A mente fredda" su "Il Calibro".
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