Quei pianisti stonati

Pubblicato il 6 Giugno 2013 alle 23:23 Autore: Gabriele Maestri

Se qualcuno avesse letto, quarant’anni fa un titolo di giornale con l’espressione «pianisti in Senato», avrebbe probabilmente pensato alla presenza nelle tribune di un gruppo di virtuosi del pianoforte, venuto per assistere a una seduta oppure – più probabilmente – a un concerto tenuto nella cornice solenne di Palazzo Madama.

(da www.senato.it)

Forse solo i lettori più avvertiti, avessero trovato le virgolette attorno a «pianisti», avrebbero azzardato un’altra spiegazione. Allora come oggi, gli stenografi del Senato usavano per i resoconti delle sedute (fin dal 1880) il metodo Michela e l’omonima macchina, i cui tasti somigliano decisamente a quelli di un piano: una volta il testo era stampato su strisce di carta, oggi le macchine sono collegate a un computer, ma le dita degli addetti continuano a viaggiare con un’agilità che non ha nulla da invidiare a quella di Maurizio Pollini o di Giovanni Allevi.

Nemmeno il lettore più malizioso, tuttavia, avrebbe immaginato che si stesse parlando di altri tasti e, soprattutto, di comportamenti nient’affatto virtuosi. Già, perché i «pianisti» che da ieri hanno ripreso a essere citati da tiggì e stampa – dopo la denuncia del MoVimento 5 Stelle, anche se non comprovata su tutti gli episodi lamentati – sono quei parlamentari che, in mancanza di un collega, si prestano a esprimere il voto anche per lui, allungando il braccio sul banco dell’assente e raggiungendone la pulsantiera, mentre con l’altra mano pigiano diligentemente il tasto del loro voto.

Poco cambia che il deputato o il senatore sia fuori dall’aula perché parlava con un ospite, stava mangiando qualcosa alla buvette (o, magari, era ai servizi per svolgere «funzioni non delegabili» per dirla con Andreotti): probabilmente si sentirà più tranquillo se potrà contare su un collega che sbrighi al posto suo l’incombenza del voto. Di più questo collega non potrebbe fare (anche perché le mani le ha finite), ma soprattutto dovrebbe astenersi anche da quello che già fa. Non varrà in questo caso la previsione dell’articolo 48 (per cui il voto è «personale» e non delegabile), ma dai regolamenti parlamentari risulta chiarissimo che, se le dichiarazioni di voto possono essere collettive, ciascun deputato o senatore esprime comunque personalmente il suo voto: che lo faccia alzando la mano, spostandosi da una parte all’altra dell’aula, compilando una scheda, deponendo nell’urna le tradizionali palline bianca e nera o – appunto – pigiando un tasto, la regola è la stessa.

Pianisti in azione

Chi vota al posto di un collega commette un’irregolarità, tanto più se il comportamento viene ripetuto da più persone: in questo modo si falsa il risultato del voto (anche se il singolo consenso non è in grado di modificare il risultato finale) o magari si fa risultare raggiunto il numero legale dei votanti, quando invece è mancante e la seduta dovrebbe essere sospesa. Il comportamento, tra l’altro, è potenzialmente costoso. Alla Camera, per dire, è previsto che ogni deputato veda “scalati” dalla propria diaria 206,58 euro per ogni giorno in cui non abbia partecipato almeno al 30% delle votazioni effettuate con procedimento elettronico durante la giornata: se la “sostituzione” del votante si ripete più volte, è possibile che ciò sia determinante ai fini del calcolo della diaria.

E pensare che tutto era nato oltre quarant’anni fa per semplificare le cose, non per complicarle. Al Senato vollero il voto elettronico l’11 agosto del 1969: fu il presidente di allora, Amintore Fanfani, ad annunciarlo e a metà luglio dell’anno dopo le pulsantiere furono installate; alla Camera si attese oltre un anno e la grande riforma dei regolamenti parlamentari del 1971 prese atto della novità. «I senatori dispongono di tre pulsanti su ogni seggio, premendo i quali possono votare: sì, no, astenuto – scriveva il 22 luglio 1970 sulla Stampa Alberto Rapisarda – Il sistema è congegnato in modo da permettere ai senatori di votare indifferentemente da ogni seggio». Proprio per questo e per evitare tentazioni furbette, a Montecitorio inizialmente le pulsantiere si attivavano con una chiavetta, per poi passare al sistema della tessera che era in uso fin dall’inizio al Senato. Ognuno aveva la sua scheda personale, per far funzionare la propria tastiera: niente tessera, niente voto.

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L'autore: Gabriele Maestri

Gabriele Maestri (1983), laureato in Giurisprudenza, è giornalista pubblicista e collabora con varie testate occupandosi di cronaca, politica e musica. Dottore di ricerca in Teoria dello Stato e Istituzioni politiche comparate presso l’Università di Roma La Sapienza e di nuovo dottorando in Scienze politiche - Studi di genere all'Università di Roma Tre (dove è stato assegnista di ricerca in Diritto pubblico comparato). E' inoltre collaboratore della cattedra di Diritto costituzionale presso la Facoltà di Giurisprudenza dell’Università di Parma, dove si occupa di diritto della radiotelevisione, educazione alla cittadinanza, bioetica e diritto dei partiti, con particolare riguardo ai loro emblemi. Ha scritto i libri "I simboli della discordia. Normativa e decisioni sui contrassegni dei partiti" (Giuffrè, 2012), "Per un pugno di simboli. Storie e mattane di una democrazia andata a male" (prefazione di Filippo Ceccarelli, Aracne, 2014) e, con Alberto Bertoli, "Come un uomo" (Infinito edizioni, 2015). Cura il sito www.isimbolidelladiscordia.it; collabora con TP dal 2013.
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