L’euro vola e indebolisce l’inflazione, ma i tedeschi legano le mani di Draghi

Pubblicato il 10 Marzo 2014 alle 15:18 Autore: Giovanni De Mizio
piano grecia

L’euro vola sui massimi contro il dollaro dal quarto trimestre del 2011, dopo l’ennesima nulla di fatto a Francoforte. Mario Draghi e i suoi colleghi della Banca centrale europea hanno deciso di lasciare invariata la politica monetaria, preferendo continuare ad utilizzare una forward guidance che ormai si sta dimostrando logora. In sintesi: troppe chiacchiere.

Secondo le previsioni della banca centrale l’inflazione dovrebbe raggiungere il suo minimo nell’anno in corso, per poi accelerare fino all’1,5 per cento nel 2016 con un tendenziale verso la fine di quell’anno più vicino al 2 per cento. Si tratta probabilmente di previsioni eccessivamente ottimistiche (come le precedenti, del resto, troppo alte di circa mezzo punto percentuale rispetto alla realtà), e che evidenziano o l’utilizzo di modelli errati da parte di Francoforte oppure della necessità di piegare la realtà alla politica, visto che i tedeschi, già irritati per la presenza del programma Outright Monetary Transactions, non sembrano essere disposti ad accettare ulteriori concessioni per i paesi periferici.

Come noto, attualmente esiste un persistente differenziale di inflazione fra la Germania ed i paesi come Italia e Spagna, conseguente al gap che si è formato tra tali paesi. La bassa inflazione tedesca, dovuta ad una eccessiva compressione della domanda interna spinge l’inflazione dei Paesi più in difficoltà sempre più in basso, spingendole sull’orlo di una deflazione che fa aumentare il peso reale del debito pubblico e annacquare ogni riforma più o meno austera che la Germania impone per riportare in ordine i conti pubblici. La situazione si potrebbe più facilmente risolvere se Berlino accettasse un tasso di inflazione un po’ più alto, in modo da evitare di spingere gli altri in una spirale deflazionistica che potrebbe portare in trappola anche il resto dell’Eurozona e in ultima analisi anche la Germania.

Benché anche l’inflazione tedesca sia lontana dal target del 2 per cento, però, i tedeschi sembrano essere radicalmente più tardi ad ogni nuova manovra espansiva, monetaria o meno. Se fossimo nella situazione inversa, ovvero un’inflazione non inferiore di un punto al target bensì superiore della stessa quantità, probabilmente i tedeschi avrebbero già fatto in modo che i tassi di interesse arrivassero alle stelle, perché ci sono profonde disfunzioni anche a livello politico europeo che non si vogliono risolvere.

Ciò finisce per provocare profonde contraddizioni che fanno venire meno la credibilità di Draghi, rendendo sempre più spuntata l’opera di moral suasion, ultima arma rimasta utilizzabile a Francoforte, a quanto pare. Ad esempio, benché la forza dell’euro (dice Draghi) abbia contribuito ad abbassare l’inflazione di un mezzo punto, la BCE non sembra avere intenzione di fare qualcosa per impedire un ulteriore rafforzamento del cambio, che resta molto troppo alto nonostante il dollaro sia entrata in una fase di forza per l’avvio del piano di rientro dall’attuale politica monetaria ultraespansiva. Insomma nonostante la BCE abbia individuato un problema che le impedisce di raggiungere il suo obiettivo principale, essa non è intenzionata (o meglio le è impedito) di fare alcunché per rimuovere l’ostacolo.

La speranza è che il processo di ripresa non venga interrotto da shock, che tuttavia diventano man mano più probabili: in tal caso sarà possibile mitigare gli effetti della bassa inflazione che rischia di far esplodere il peso reale del debito pubblico rischiando di far cadere quell’elefante, nella cristalleria Europea che è l’Italia. La legge di Murphy, tuttavia, ci ricorda che se qualcosa può andare storto, inevitabilmente lo farà.

L’agenda macroeconomica di lunedì prevedeva la produzione industriale in Italia, risultata migliore delle attese (+1 per cento contro consensus inferiore al mezzo punto).  Martedì notte la banca centrale giapponese renderà nota la propria politica monetaria a supporto dell’Abenomics, che pare in rallentamento rispetto agli obiettivi prefissati, per via della scarsa volontà del governo di scoccare la terza freccia, ovvero le riforme strutturali; più tardi nello stesso giorno l’Italia dovrebbe confermare una crescita dello 0,1 per cento del prodotto interno lordo su base trimestrale.

Mercoledì andranno in asta BOT italiani a 12 mesi, mentre l’Unione Europea renderà nota la propria produzione industriale, che su base mensile dovrebbe tornare in crescita di mezzo punto percentuale.

Giovedì l’indice dei prezzi al consumo in Italia è atteso ancora una volta in decrescita su base mensile di un decimo di punto percentuale, ovvero la crescita dei prezzi anno su anno dovrebbe rimanere ferma allo 0,5 per cento. Poco dopo andranno in asta BTP a 3 anni. Nel pomeriggio le consuete richieste di sussidi di disoccupazione negli Stati Uniti dovrebbero rimanere sempre attorno alle 330 mila unità, mentre le vendite al dettaglio a stelle e strisce sono attese in crescita mensile di 2 decimi di punto.

Giovedì conosceremo l’inflazione in Germania, che su base tendenziale è attesa in crescita dell’1,2 per cento, e quindi lontana a sua volta dal target del 2 per cento. Venerdì l’indice che misura la fiducia delle famiglie USA dovrebbe confermarsi più o meno agli (alti) valori precedenti.