Casamonica, polemiche “non autorizzate”?

Pubblicato il 24 Agosto 2015 alle 09:11 Autore: Gabriele Maestri
carrozze di cavalli per boss casamonica

Non bastava Mafia Capitale a movimentare il 2015 di Roma. Due terzi dell’estate erano trascorsi e, con epicentro presso la chiesa di San Giovanni Bosco del Tuscolano, è partito il terremoto Casamonica. Dopo il funerale, coi media che hanno trasmesso le immagini a ripetizione, si è avviata la macchina delle polemiche. Rabbia e indignazione sono sentimenti più che comprensibili (in parte li condivide anche chi scrive ora), ma parlare con un po’ di cognizione di causa in più farebbe bene a tutti.

Ci si interroga sulle mancanze del sistema di sicurezza, sui controlli che sarebbero mancati, persino sull’inquietante coincidenza della chiesa del funerale più contestato del 2015 con quella negata a Piergiorgio Welby anni fa. Le domande che circolano di più sono tre: “chi ha autorizzato tutto questo?”, “possibile che nessuno sapesse?” e “si poteva fare qualcosa in tempo?”.

carrozze di cavalli per boss casamonica

Alla prima voleva rispondere, tra gli altri, il vicesindaco di Roma Marco Causi: “Questi signori non hanno chiesto il permesso a nessuno. Il loro corteo non era autorizzato”. Sarà così, ma c’è il sospetto che Causi non abbia considerato una cosa: quel giorno non c’era niente da autorizzare. Le persone che si sono trovate davanti alla chiesa per il corteo, o comunque per aspettare la salma, non erano lì per caso, per cui si può parlare di “compresenza volontaria di più persone nello stesso luogo”: così uno dei più diffusi manuali di diritto costituzionale definisce la “riunione”, la cui libertà è tutelata dall’art. 17 della Costituzione. Per il comma 3, “delle riunioni in luogo pubblico deve essere dato preavviso alle autorità, che possono vietarle soltanto per comprovati motivi di sicurezza o di incolumità pubblica”.

A precisare il punto provvede l’art. 18 del testo unico di leggi di pubblica sicurezza (Tulps), piuttosto vecchiotto – è del 1931, quasi coetaneo del “codice Rocco”, cioè il codice penale – ma ancora in vigore. Lì si legge che “I promotori di una riunione in luogo pubblico devono darne avviso, almeno tre giorni prima, al Questore”. Il preavviso non è un’autorizzazione, ma solo una comunicazione all’autorità di pubblica sicurezza, che così ha il tempo di predisporre le misure necessarie o utili perché nulla minacci la sicurezza o l’incolumità pubblica, fosse anche solo la gestione del traffico.

Il preavviso è stato dato? Probabilmente no, se per lo stesso Causi gli agenti del comune di Roma sono “intervenuti a corteo iniziato con le autorità di pubblica sicurezza”. Ciò significa che la “riunione” era illegittima? No, per due ragioni. Innanzitutto, proprio perché non serve l’autorizzazione, ogni manifestazione non annunciata tempestivamente resta legittima (a meno che non venga vietata): i soli a rispondere (penalmente) per il mancato preavviso saranno i promotori dell’evento. Secondariamente, si potrebbe obiettare che non è l’art. 18 del Tulps a doversi applicare, ma il più specifico art. 27, che esonera dall’obbligo di preavviso di tre giorni gli “accompagnamenti del viatico” e i trasporti funebri, salvo le regole specifiche previste da leggi per i funerali.

In tutti i casi (art. 18 o 27), cosa avrebbe potuto fare la questura? Considerando l’evento una “riunione” tout court, in caso di “ragioni di ordine pubblico, di moralità o di sanità pubblica”, poteva impedire la riunione, oppure “prescrivere modalità di tempo e di luogo” della stessa; se si prende la fattispecie del funerale, invece, il questore può solo “vietare che il trasporto funebre avvenga in forma solenne ovvero può determinare speciali cautele a tutela dell’ordine pubblico e della sicurezza dei cittadini”, senza poter impedire l’evento in sé, né tanto meno – come è ovvio – la cerimonia in chiesa.

Trattandosi di limitazioni di diritti costituzionalmente garantiti, i provvedimenti di divieto o limitazione devono essere ben motivati e si possono impugnare davanti al giudice; le disposizioni del Tulps, poi, essendo entrate in vigore prima della Costituzione, si devono interpretare alla luce di essa. Il divieto della manifestazione, dunque, può arrivare solo per motivi di motivi di sicurezza o di incolumità pubblica: motivi che al funerale di Casamonica non c’erano (diverso sarebbe stato se qualcuno avesse preteso di concentrare gente sul tetto della chiesa o in un luogo pericoloso).

locandina celebrativa casamonica funerali roma

Si potevano porre limiti? Sì e no. Motivi dimostrabili di sanità pubblica non ce n’erano. Su quelli di moralità pubblica si può discutere: l’espressione a lungo è stata riferita alla sfera sessuale, ma ora ci si riferisce più ampiamente alla coscienza etica di un popolo; i concetti però sono molto soggettivi e non è detto che un questore voglia prendersi la responsabilità di intervenire su quella base. Per l’ordine pubblico, la partita è delicata: nel diritto penale, ordine pubblico è l’andamento regolare della vita sociale, che si traduce nella pace pubblica e nella sicurezza. Per questo, quando non si vuole che due cortei di partiti avversi si incontrino nelle strade della stessa città, si ordinano percorsi differenti.

Nel caso del funerale, però, elementi direttamente contro l’ordine pubblico era difficile trovarne. Tutt’al più, vista la “particolarità” del personaggio, il questore avrebbe potuto ordinare “speciali cautele”, compreso vietare il trasporto funebre in forma solenne, cosa che probabilmente avrebbe evitato la banda e soprattutto la “carrozza di Lucky Luciano”. Per farlo, però, avrebbe dovuto spiegare bene quali ragioni “a tutela dell’ordine pubblico e della sicurezza dei cittadini” richiedevano quelle limitazioni; a monte, poi, il questore avrebbe dovuto sapere con certezza del funerale e della presenza di alcuni soggetti (quelli per i quali era stata data specifica autorizzazione a partecipare, visto che erano agli arresti domiciliari).

Quella comunicazione è mancata: l’avviso formale della cerimonia funebre non pare essere stato dato, la notizia della partecipazione al funerale di chi era stato autorizzato a lasciare gli arresti è circolata poco tra le autorità della sicurezza. Autorità che, peraltro, nulla avrebbero potuto contro i fotomontaggi di Casamonica in abiti papali (di pessimo gusto, specie per i credenti, ma irrilevanti penalmente) e contro la musica del Padrino, che non è neanche un’apologia di reato (si dovevano sequestrare gli spartiti? discutere il repertorio della banda?); anche con avvisi e notizie tempestivi, poi, sarebbe stato difficile ovviare alla carrozza “a cose fatte” (si blocca tutto e fa arrivare un altro carro?).

Quanto all’elicottero spargipetali, poi, certamente è arrivato fin lì violando le norme applicabili al volo (e, per quanto sia grottesco nel contesto, chi le ha violate dev’essere punito) ed è un grave campanello d’allarme per la sicurezza di Roma alle porte del Giubileo; qualcuno probabilmente poteva accorgersene in tempo e, magari, intervenire. In tutto questo, però, c’entra poco il ministro Alfano in sé, che avrebbe potuto informarsi su cosa stava per accadere ma non certo ordinare di agire in un certo modo; non c’entrano praticamente nulla gli amministratori della città di Roma, a partire da Marino, non potendosi imputare loro la presenza di tante persone a un evento così discusso.

E allora? Certamente la vicenda ha dimostrato – per l’ennesima volta – che le informazioni devono circolare di più e meglio tra le forze di sicurezza: possiamo e dobbiamo pretendere che le istituzioni si parlino tra loro (anche se inevitabilmente ci lamenteremo, perché lo stato si fa gli affari nostri e si intromette nelle nostre vite private). Anche così, però, non risolveremmo tutto, ma solo una parte del problema. Occorre renderci conto che, a darci fastidio, è stata un’incredibile commistione di particolari indigesti, una sorta di mosaico dell’indignazione, fatto di tessere che – prese singolarmente – non sono “irregolari”, eccezion fatta per l’elicottero che non doveva stare lì.

Cosa ci ha fatto reagire? Proprio l’insieme degli elementi, dallo sfarzo della cerimonia in tempo di crisi, fino all’ampia partecipazione. Quella folla, però, prima che indignarci ci deve preoccupare. Se, con lo stesso sfarzo e le stesse esagerazioni, non si fosse presentato nessuno davanti alla chiesa, forse avremmo versato fiumi di inchiostro e caratteri per dire che qualcosa stava iniziando a cambiare: tutta quella gente, invece, dice qualcosa di diverso (e quelle persone non erano lì grazie ad Alfano o a Marino) e lo stesso vale per la troupe Rai aggredita oggi. C’è chi dice che parlando del funerale si fa il gioco dei Casamonica, ma di questo è bene parlare.

L'autore: Gabriele Maestri

Gabriele Maestri (1983), laureato in Giurisprudenza, è giornalista pubblicista e collabora con varie testate occupandosi di cronaca, politica e musica. Dottore di ricerca in Teoria dello Stato e Istituzioni politiche comparate presso l’Università di Roma La Sapienza e di nuovo dottorando in Scienze politiche - Studi di genere all'Università di Roma Tre (dove è stato assegnista di ricerca in Diritto pubblico comparato). E' inoltre collaboratore della cattedra di Diritto costituzionale presso la Facoltà di Giurisprudenza dell’Università di Parma, dove si occupa di diritto della radiotelevisione, educazione alla cittadinanza, bioetica e diritto dei partiti, con particolare riguardo ai loro emblemi. Ha scritto i libri "I simboli della discordia. Normativa e decisioni sui contrassegni dei partiti" (Giuffrè, 2012), "Per un pugno di simboli. Storie e mattane di una democrazia andata a male" (prefazione di Filippo Ceccarelli, Aracne, 2014) e, con Alberto Bertoli, "Come un uomo" (Infinito edizioni, 2015). Cura il sito www.isimbolidelladiscordia.it; collabora con TP dal 2013.
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