Usa 2016, un voto con lo sguardo a Bruxelles

Pubblicato il 23 Marzo 2016 alle 14:19 Autore: Redazione
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Usa 2016, un voto con lo sguardo a Bruxelles

I tragici fatti avvenuti ieri a Bruxelles hanno riscosso larga eco anche oltreoceano, dove nella notte si sono tenute le primarie in tre Stati: Utah, Arizona, Idaho. In quest’ultimo hanno votato soltanto gli elettori democratici. Nelle ore immediatamente successive all’attentato nella capitale belga, tutti e cinque i candidati avevano rilasciato dichiarazioni sulla vicenda. Come al solito, spicca tra tutti Donald Trump, che sul suo profilo ha scritto: “Vi ricordate quanto era bella e sicura Bruxelles. Non più, era un mondo diverso. Gli Stati Uniti devono essere vigili ed intelligenti!”.

Repubblicani: Trump avanza, Cruz insegue

Con il 47%, Trump ha vinto le primarie in Arizona. Pur non ottenendo la maggioranza assoluta, il magnate strappa agli avversari tutti e 58 i delegati che lo Stato meridionale assegna, grazie al sistema del winner-take-all. Punti pesanti per Trump, che incrementa il suo vantaggio arrivando a 738 delegati: circa cinquecento lo separano dalla fatidica soglia dei 1237 necessari per poter essere proclamato candidato ufficiale del partito. Qualora non riuscisse nell’obiettivo, si concretizzerebbe l’ipotesi di una “convention contestata”, in cui a contare davvero saranno i giochi di potere e le abilità diplomatiche. È proprio per questo motivo che John Kasich non si è ancora ritirato, forse anche su pressione dell’establishment. Dopo aver strappato a Trump l’Ohio di cui è governatore, è probabile che Kasich resti in sella fino alla fine, per raccogliere il consenso di quel poco che resta degli elettori moderati del partito. Inoltre, l’intento è quello di ottenere il maggior numero di delegati possibile (soprattutto in Pennsylvania e West Virginia, confinanti con l’Ohio), delegati da mettere sul piatto della bilancia quando a luglio si arriverà alla resa dei conti.

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Può consolarsi invece Ted Cruz, che trionfa in Utah, con il 69%. Una valanga di voti per il senatore “real conservative”, che si aggiudica tutti i 40 seggi in palio grazie al superamento della maggioranza assoluta dei voti, ottenuta anche con il contributo dell’ex candidato presidenziale Mitt Romney, che ha dimostrato ancora una consistente influenza, visto il successo di Cruz nell’area del paese dove la comunità dei mormoni si concentra maggiormente. A dimostrazione delle scarse simpatie di cui Trump gode da queste parti, un sondaggio “shock” che rivela una sconfitta del Partito Repubblicano qualora fosse Trump il candidato presidente, in uno stato – lo Utah, appunto –  storicamente fedele al GOP. La frattura religiosa potrebbe creare nuove criticità al già travagliato percorso di Donald Trump verso un’insperata presidenza. Un’ulteriore preoccupazione per l’élite di un partito in seria crisi di identità, al quale ormai gli appelli all’unità non bastano più. Intanto è notizia di poche ore fa l’endorsement ufficiale dell’ex candidato Jeb Bush per Ted Cruz. Un’altra mossa evidente in chiave anti-Trump.

Democratici: per Sanders una piccola rivincita

Dopo il 5-0 incassato lo scorso martedì, Bernie Sanders ha rialzato la testa, imponendosi con quasi l’80% dei voti sia nello Utah che in Idaho. Due ottime affermazioni grazie alle quali il senatore del Vermont riduce di qualche unità l’ampio distacco dalla rivale Hillary Clinton. Quest’ultima, tuttavia, ha vinto la sfida in Arizona riportando oltre il 57% delle preferenze. Ancora una volta si conferma il dominio indiscusso della ex first lady negli Stati del sud. Ma Sanders non demorde, rincuorato dal plebiscito ottenuto fra i “democrats aborad” (gli elettori residenti all’estero, tra i quali il senatore socialdemocratico ha riscosso il 68% dei consensi) e da sondaggi a suo favore, che lo attesterebbero in netto vantaggio per la Casa Bianca contro qualunque avversario repubblicano, a differenza della Clinton che invece faticherebbe molto contro Kasich e Cruz.

Sanders durante un comizio

Al netto di più o meno improbabili scenari, la Clinton considera ormai se stessa come la candidata in pectore, tanto che ha abbandonato da tempo gli attacchi (mai stati feroci, c’è da dire) a Sanders, concentrando invece la sua strategia contro quel Donald Trump alla quale lo legava un’amicizia solida fatta di partite a golf, feste private e inviti reciproci a matrimoni, ma che adesso rappresenta l’unico vero ostacolo alla strada che si frappone fra Hillary Clinton e la Casa Bianca. L’emergenza terrorismo sarà un importante banco di prova in questi mesi di campagna elettorale. Alle bordate di Trump – spesso prive di contenuto programmatico – la Clinton dovrà rispondere con fermezza, cercando di far valere l’esperienza acquisita negli anni della prima presidenza Obama, quando ha ricoperto il delicato ruolo di Segretario di Stato, certo non riscuotendo unanimi giudizi positivi. A proposito dei fatti di Bruxelles, la Clinton ha rilasciato dichiarazioni di circostanza che non vanno oltre una generica difesa dei valori e necessità di rafforzare l’alleanza con l’Europa. Una cautela probabilmente dovuta anche alle perplessità dell’elettorato democratico a proposito di una mobilitazione militare di ingenti proporzioni.

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