La storia di Rosa – La paura

Pubblicato il 19 Marzo 2020 alle 16:11
Aggiornato il: 10 Aprile 2020 alle 14:03
Autore: Nicolò Zuliani

Le esperienze segnano, le apparenze ingannano. La storia di Rosa, una donna che parla poco ma ha molto da raccontare.

La storia di Rosa – La paura


Ciclo della paura: – – – – – – –

Elettra, maglione sdrucito e pantaloni della tuta, ormai s’è abituata al trono di stoffa. Tira fuori una limetta e si concentra su un’unghia del piede: «Rosa, raccontaci una storia» dice. Rosa è sulla quarantina, o forse un chirurgo le ha dato un colpo alla clessidra. Capelli castani, occhi azzurri e zigomi dell’est Europa, indossa una vestaglia di seta un po’ retrò, il seno troppo rigido che sbuca fuori ogni volta che si china a prendere il bicchiere dal tavolino, senza che a nessuno importi. Incrocia le gambe e si lascia andare sullo schienale con gesti raffinati e spontanei, troppo, rispetto a Clelia che sta stravaccata a giocherellare con il telefonino.

«Volete una storia sulla paura» sorride Rosa, con un accento che sa di vodka e neve «C’era una volta una bambina di quattordici anni, nata in un paese dell’Ucraina. È ancora vergine quando tornando da scuola vede tutto nero, e quando riapre gli occhi è in un appartamento, incatenata a un letto, davanti a un uomo che non ha mai visto. Voi parlate di paura: vi credo. Ma la paura che prova lei è immensa.

Grida, chiede, parla, ma non ottiene nessuna risposta. La sera lui entra, puzza di vino; le porta via l’innocenza come se fosse un muro in cui piantare un chiodo. Lei grida ancora fino a ustionarsi la gola, ma non serve a niente. Due giorni dopo, lo fa di nuovo. Poi basta. Cominciano a parlare, lei lo supplica di lasciarla andare, giura che non dirà niente, e lui le domanda: dove vuoi andare?

Poi le passa un cellulare e le dice di chiamare sua madre.

La paura è una cosa, ma sapete cos’è il terrore, quello che ti fa svenire? È quando senti l’ultima speranza trasformarsi in un’altra minaccia. La madre non è affatto preoccupata, o spaventata. È fredda come la Kolyma. Dice alla figlia che ormai è rovinata, nessuno la sposerà mai, non deve più azzardarsi a tornare a casa perché lei non si vergogni di lei, se ne deve andare lontano.

Non potete sapere cosa prova una bambina di quattordici anni a sentire parole del genere dalla propria madre, e so che non ci credete. Ma la mia protagonista le sente bene, anche se non sa tante cose. L’uomo riattacca e il giorno dopo la porta in Italia in un furgone, legata e imbavagliata tra tubi di gomma.

Arrivano in un appartamento dove c’è una coppia di ucraini.

All’inizio la coppia sembra normale, poi la protagonista nota che la donna esce il mattino presto e torna la sera, mentre lui sta a casa a non fare niente. Le dicono che lavora in un bar, ma quando la sera li vede contare soldi capisce cos’è. Una sera l’uomo prende la fidanzata, le grida che ha rubato e la massacra di botte fino a farla svenire.

Oh, lei sa cosa l’aspetta, così ha un’idea: aspetta la donna si riprenda e le propone di scappare insieme, di andare alla polizia. La donna le dice di sì, poi fila a riferire ai due uomini. Loro prendono la ragazza e la picchiano con le mani, coi piedi, con le cinghie. È ridotta così male che deve farsi mettere dei punti da un salumiere, anche lui ucraino.

Le servono tre settimane per ricominciare a camminare abbastanza per fare i suoi bisogni in bagno.

A quel punto i due uomini le dicono che deve mettersi a lavorare o la uccideranno. La mettono in strada di fianco alla donna che l’aveva tradita, così le insegna il lavoro. Pensate sia semplice, invece è una gara di sopravvivenza. Devi imparare a mentire sull’età – lei ne aveva 14, doveva dire 19 – con un colpo d’occhio devi saper distinguere i clienti, contare il tempo per ognuno senza però darlo a vedere. È più complesso di come si crede, e se sbagli potresti finire in un fosso.

Passato il periodo di prova la mettono su una strada da sola, con altre come lei ogni 200 metri. Qui da un lato conosce la capa, una moldava sveglia e simpatica, e dall’altro gli italiani. Alcuni si innamorano, altri fanno promesse, altri vogliono solo parlare, altri si offrono di aiutarla. Festeggia i suoi 15 anni a bordo strada con una torta. La notte stessa va con un cliente nel solito posto, ma dal buio entra in macchina un altro e lei sente solo qualcosa attorno al collo.

Quando riapre gli occhi è in autostrada, guarda i lampioni, è legata. La moldava sveglia e simpatica l’ha fatta portar via, perché aveva troppi clienti. Agli uomini piacciono giovani, e se di norma non sanno capire la differenza d’età, quando il sangue va giù stai fresca. Alcune ci han fatto la carriera, altre no.

Finisce in un appartamento con un’altra coppia, questa volta italiani. Anche qui, lui sta a casa a giocare al solitario mentre la donna si prostituisce, ma è incinta di sei mesi e in famiglia serve una sostituta quanto prima. La protagonista urla e li avverte che se provano a metterla in strada lei scappa dalla polizia alla prima occasione. La picchiano in due, ma rispetto alla prima coppia non è terribile. L’uomo picchia come quelli che hanno più paura della vittima, non so se avete presente. Al solito – anche se non è di pubblico dominio – è la donna quella che s’incaponisce di più sulle altre donne. Usa il manico di un’ombrello spezzato. Del resto, se la vita t’ha portata lì, ne hai di cose da sfogare: la tua unica fonte di reddito è andata, la seconda non vuole collaborare.

Dal letto li sente discutere, dicono che domani la portano in un bosco e le danno fuoco. Tanto è clandestina, nessuno sa che è lì e nessuno la cercherà, ma la mia protagonista non ha più paura. Il giorno dopo, legata in macchina, è serena. Prega solo il Signore che la faccia morire presto e senza soffrire troppo. Invece la portano in un’altra casa ancora, quella di un uomo, italiano, che è esperto in “puledre da domare”. L’ha comprata per 15 milioni di lire.

Quei due avrebbero avuto il coraggio d’ammazzarla?
Non lo so. Forse sì. Erano avidi e stupidi.

Il nuovo proprietario non la picchia né violenta, anzi. La tratta bene, la coccola, le compra vestiti nuovi, piano piano la porta anche fuori a prendere un gelato, poi una pizza. Ma la mia protagonista non è stupida: sa che è un modo per ottenere la fiducia. Così fa l’opposto: da preda diventa predatrice. Finge di credergli, anzi, è lei a offrirgli sesso. Fa le pulizie, cucina, lava. Gli dice di essersi innamorata di lui, gli giura amore eterno. Vanno a letto una, due, dieci volte. All’ultima, lui si addormenta lasciando la porta aperta.

Lei corre più veloce che può verso una caserma dei Carabinieri, e il resto è storia.

Denuncia tutti; la coppia di italiani viene arrestata, gli ucraini scompaiono nel nulla. Lei viene affidata a una famiglia senza figli, va a scuola, riesce a diplomarsi, poi a laurearsi in legge. Da quella volta, anche se adesso ha una bella vita, è felice, ha un marito che la ama, una casa, dei figli, sente bisogno di esorcizzare quell’orrore. Ha bisogno di riviverlo dall’altra parte, capite? Non può spiegarlo al marito. Non capirebbe, la crederebbe una psicopatica. Invece ha solo bisogno di riscrivere e riscrivere quei ricordi, ma in cui è lei ad avere il controllo. Non sempre, al massimo una volta al mese. Così va in un bordello in Svizzera, prende la ragazza più giovane che le capita e… e…»

Dalle scale si sentono dei tonfi, poi un raschiare metallico e un tintinnare di catene. Nel salotto piomba il silenzio, c’è un gemito e poi qualcosa rotola giù dalle scale. Clelia si rialza con addosso solo bende di cuoio che le tengono bloccati i piedi e le mani con delle catene. Sul viso ha una maschera e una gag ball nera in bocca. È unta, coperta di lividi e graffi. Agita le mani e mugugna qualcosa di incomprensibile.

Xeni chiude gli occhi e china la testa, massaggiandosi il setto nasale, poi la raggiunge. Apre le fibbie della maschera con malcelato disagio: «È solo olio, vero?» le mormora. Clelia scuote la testa con decisione. Xeni manda un sibilo, riesce a liberarle la bocca e scende sui polsi.

«Ho sete» dice Clelia.
«Hai bevuto abbastanza» dice Rosa, senza guardarla.
Xeni le libera le gambe e le indica il bagno. Clelia zompetta via.

«So you… she. She’s not a…» fa Jackson, guardando Rosa dal basso.
«Oh no! A discapito di quello che facciamo di sopra, non sono una prostituta» sorride Rosa, allargando le braccia sullo schienale del divano «Sono una cliente, Jackson. Nella vita faccio il magistrato.»

Nella stanza nessuno fiata.

Rosa si volta verso il bancone, dove Xeni sta girando un cucchiaio d’argento in un mixing glass. Di fianco c’è un tumblr pieno di ghiaccio, ci versa dentro un liquido verde e mescola una decina di volte. Butta il contenuto nel lavello, versa nel bicchiere il liquido ambrato del mixing glass, appoggia il bicchiere su un vassoietto d’argento e non ha bisogno di farsi largo; gambe, braccia e persone si scostano come sardine al passare di uno squalo.

Appoggiato il vassoio, ci spreme sopra una buccia d’arancia.

«Questo è un Sazerac, dottoressa» fa Xeni, con le mani dietro la schiena «Whisky rye, una punta di zucchero e bitter Peychaud’s in un bicchiere bagnato d’assenzio. Ha una personalità molto forte, è un drink per gente di fegato. Ho pensato…»
«Hai pensato benissimo» annuisce Rosa con un sorriso, prendendo il bicchiere.

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L'autore: Nicolò Zuliani

Veneziano, vivo a Milano. Ho scritto su Men's Health, GQ.it, Cosmopolitan, The Vision. Mi piacciono le giacche di tweed.
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