Ho acquistato la tanto dibattuta rivista con Vanessa Incontrada

Pubblicato il 1 Ottobre 2020 alle 19:08 Autore: Nicolò Zuliani

Per fortuna ci sono le riviste e le aziende di moda che spiegano alle donne come devono essere le donne per essere loro stesse.

Per coloro che vivono nel paese reale e non nella cyberbolla dell’intellighenzia italiana, da una settimana impazza il dibattito sulla foto di un’attrice, Vanessa Incontrada, apparsa in copertina di Vanity Fair esibendo una BF% superiore alla media delle immagini photoshoppate modelle che normalmente vi appaiono.

È subito gioia da parte dei seguaci del fat acceptance, body positivity e gli attivisti impegnati per combattere il body shaming. L’inciso in copertina chiama a raccolta anche gli uomini: «Questa cover è un punto d’arrivo che vede il mio corpo diventare un messaggio per tutte le donne (e anche per gli uomini). È ora di affrontare una nuova bellezza.»

È tutto così meraviglioso che non so da che parte iniziare

La rivista VF prende il titolo da un romanzo a puntate di Thackeray, scritto a metà ‘800. Un mattone di soldi, matrimoni e corna dove i sentimenti sono chiavi per aprire le casseforti e uscite d’emergenza quando si svuotano, e alla fine vince pure la cattiva perché è l’unica che pensa ai soldi. Premesso questo, sono rimasto affascinato. Anzi, di più: ipnotizzato.

Prima di tutto perché non credevo i migliori scienziati e ricercatori del mondo lavorassero nell’industria della cosmetica. Mi sono passati sotto il naso creme anti età e anti cellulite con all’interno sostanze extraterrestri tipo acidi jaluronici, caprifogli fermentati, BTX tripeptine, “tissulage tech”, rughe “statiche e dinamiche”, pelli riaddensate, morpho tecnology.

Non guarderò mai più l’armadietto di mia moglie nello stesso modo.

Il Diavolo veste Prada, David Frankel, 2006

Facendomi largo tra pubblicità di orologi da palestra, completi di Intimissimi su modelle rinsecchite e – sospetto – minorenni, ciglia più spesse, labbra più carnose, filler per contorno occhi, sieri essenziali antiossidanti, ho oltrepassato doppie pagine di acciughe taglia 36 che indossano stracci misto acrilico e finalmente sono arrivato alla – crema riattivante alla camomilla – dicevo, alla sezione moda.

Dhaka, Bangladesh – Garment factory in the Mohakhali area. Dhaka counts more than 4000 factories producing for export only

Qui si trovano “bellezze non convenzionali” che rilasciano dichiarazioni interessanti. Tra le tante mi resta impressa la didascalia della fotomodella Csenge Popa.

“Le mie orecchie sono una caratteristica speciale che mi è sempre piaciuta”.
Orecchini art decò in oro bianco con cristalli di rocca, onice e diamanti, e collier Panthère in oro bianco, onice e diamanti con smeraldi, Cartier”

Alla fine della sezione viene – giustamente – specificato chi ha fatto il make up, chi sono stati gli hair stylist, chi ha fatto la manicure e il management delle modelle. Poi, esausto, arrivo all’intervista con raffinate foto in bianco e nero dell’attrice che lamenta di uomini diventati “più narcisisti delle donne, mi chiedo cosa stia succedendo”, poi della “cattiveria di certe donne che invece di essere solidali ti giudicano”, poi del fatto che gli uomini per strada hanno smesso di gridarle “ah bona” e l’hanno sostituito con “sei dolcissima”.

L’intervista termina con le marche di cosa indossava nelle foto, chi è la responsabile dello styling, chi ha collaborato, chi ha fatto il make up, chi ha fatto i capelli, chi ha fatto il close up usando tale prodotto per la pelle e chi ha fatto la manicure.

All’improvviso ho capito: è uno scherzo

Perché noi conosciamo le aziende di moda.

Sono diventate multimiliardarie grassando, schiavizzando, sottomettendo e corrompendo governi esteri per poter avere manodopera minorile sottopagata a cui far produrre orrori di plastica da vendere in Occidente al 300% del costo reale. Aziende che per ANNI hanno detto alle donne che la vera femminilità è avere il fisico di un bambino giapponese.

«E così qui le ragazze non mangiano niente.»
«No, da quando la taglia 38 è diventata la nuova 40 e la 36 la 38.»
«Io porto la 42.»
«Che è la nuova 56» sorride Nigel.
Il diavolo veste Prada, 2006

Ecco, queste aziende che manipolando, mentendo, omettendo e molestando a furia di photoshop, chirurgia e deprivazioni sono riuscite a imporre alle donne – e solo a loro – canoni di bellezza da malati mentali all’improvviso sono interessate all’inclusività. E per farlo toh, tieni, ti ho messo una tizia che non ha la massa grassa di una roccia arenaria, contenta? Ora compra ‘sta crema anticellulite. Le donne sono belle sempre, anche a cinquant’anni, vedi? Ora compra ‘sta crema antirughe. Il tuo corpo va bene così com’è, vedi? Mettiti ‘sto lenzuolo da 500 euro.

Non c’è nessuna “rivoluzione”. Non c’è nessuna “inclusività”. È solo il solito, miserabile modo che hanno vecchi avvoltoi per mangiare carne fresca: prendi una protesta, ci metti il tuo marchio e ti ergi a portavoce nonché punto di riferimento identitario. Che nel caso del mondo della moda è più o meno come Pacciani che scriveva poesie d’amore e fratellanza.

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L'autore: Nicolò Zuliani

Veneziano, vivo a Milano. Ho scritto su Men's Health, GQ.it, Cosmopolitan, The Vision. Mi piacciono le giacche di tweed.
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