Il declino dei partiti deduttivi

Pubblicato il 16 Novembre 2012 alle 14:19 Autore: Matteo Patané

La realtà, tuttavia, è ben diversa.
Da un punto di vista prettamente politico, perseguire obiettivi ottimali localmente non garantisce l’ottimalità sull’obiettivo generale. Lo studio dei sistemi complessi e la ricerca delle loro configurazioni ottimali è una branca che ha ormai abbandonato la matematica pura per tuffarsi nella biologia e nell’economia: la politica è colpevolmente in ritardo nell’utilizzo di strumenti adeguati per l’approccio ai problemi complessi, ma il modello generale è indubbiamente lo stesso.
Perdere di vista, quindi, il quadro d’insieme per perseguire una serie di risultati locali significa rinunciare alla ricerca della migliore strada politica.

Oltre che dal punto di vista politico, il partito induttivo risulta perdente – e questa a prima vista potrebbe essere una sorpresa – anche da quello del consenso. Se infatti è vero che sui problemi specifici i partiti induttivi possono ottenere maggiori risultati e contestualmente un maggior apprezzamento, non è da sottovalutare la possibilità, limitata ai partiti deduttivi, di riuscire a vendere un brand globale e omnicomprensivo alla popolazione, un brand ad alto tasso di fidelizzazione in grado di trasformare il partito in “comunità”. Allo stesso tempo, la capacità di ricondurre ogni propria scelta politica ad un obiettivo di più alta portata è in grado di proteggere l’azione politica del partito deduttivo da casi di – presunta o reale – incoerenza, laddove un partito induttivo non può godere di una simile protezione.

Se i vantaggi sono tutti così a favore dei partiti deduttivi, perché esistono partiti induttivi? Perché i partiti politici italiani si sono evoluti – o per meglio dire involuti – dalla deduzione all’induzione?
In realtà è difficile che si tratti di una scelta volontaria. La scomparsa delle ideologie sociali che hanno caratterizzato il XX secolo, senza che vi fossero nuovi grandi movimenti da abbracciare, ha costretto i partiti a navigare a vista, a procedere a tentoni alla ricerca di una propria vocazione senza alcun appoggio ideologico.
L’incapacità quindi di potersi ricondurre ad un impianto sociale di ampia portata e di offrire ai propri simpatizzanti un modello politico “di vita” sta lentamente uccidendo la credibilità dei partiti ancora di più degli scandali e del malaffare, perché consiste nell’effettiva perdita di significato della forma-partito in tutte le sue declinazioni. La crisi dei partiti è legata a doppio filo al declino dei modelli sociofilofofici del passato e all’incapacità non solo politica ma in ultima analisi intellettuale di individuare nuovi stimoli in tale campo. Né i processi induttivi paiono riuscire in se stessi a condurre a quelle necessarie generalizzazioni in grado di generare nuove correnti di pensiero di ampio spettro.
Sotto la spinta di un crescente populismo, è quindi necessario capire che la crisi dei partiti nasce da un inaridimento intellettuale prima ancora che politico, e che solo attraverso formulazioni – anche ardite, anche sbagliate – di pensiero sociale innovative e inclusive sarà possibile arginare tale deriva.

L'autore: Matteo Patané

Nato nel 1982 ad Acqui Terme (AL), ha vissuto a Nizza Monferrato (AT) fino ai diciotto anni, quando si è trasferito a Torino per frequentare il Politecnico. Laureato nel 2007 in Ingegneria Telematica lavora a Torino come consulente informatico. Tra i suoi hobby spiccano il ciclismo e la lettura, oltre naturalmente all'analisi politica. Il suo blog personale è Città democratica.
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