I numeri dello tsunami in Parlamento

Pubblicato il 1 Marzo 2013 alle 10:47 Autore: Gabriele Maestri

C’è chi da giorni parlava già di tsunami. Nessun riferimento a Grillo e al suo giro lungo le piazze italiane a sostegno del Movimento 5 Stelle: più che le piazze piene, qualcuno pensava a contare altri numeri per misurare la voglia di rinnovamento. Chi aveva avuto modo di spigolare per primo le liste delle candidature alla Camera e al Senato, infatti, aveva già potuto avere in qualche modo la misura del cambiamento che sarebbe arrivato nel giro di poche settimane.

Un gruppo di dottorandi in Teoria dello Stato dell’Università di Roma “La Sapienza (Ilenia Bernardini, Simone Ferraro, Francesca Ragno, Hugo Rosero) si sono presi la briga di spulciare le varie liste, facendo il conto di quanti erano parlamentari uscenti e quanti invece erano candidati “nuovi”, non presenti nella legislatura ormai agli sgoccioli. Bastava scorrere quei numeri per capire che lo tsunami si stava preparando: per qualcuno (come il professor Fulco Lanchester) il ricambio della classe politica, anche a prescindere da Grillo, si apprestava ad essere più profondo di quello del 1994. Con la sensibile differenza che quella volta furono soprattutto gli elettori – grazie al sistema maggioritario uninominale – a lasciare fuori dal Parlamento molti di coloro che avevano almeno una legislatura alle spalle; questa volta, con le liste bloccate, sono stati i partiti stessi a “forzare” il rinnovamento attraverso la compilazione delle liste, a volte utilizzando strumenti di partecipazione come le primarie.

Secondo i calcoli dei dottorandi, i due partiti maggiori contavano all’interno delle loro liste una percentuale di ricandidati di poco inferiore al 20%: in particolare, il Pd presentava il 19% di ricandidati (174 su 918), il Pdl si fermava al 16,6% (136 su 818 candidati totali). Le percentuali erano ancora più basse per altre forze politiche: il 6,7% per la Lega Nord (54 su 809), il 4% per Futuro e libertà e l’Udc (limitandosi però alle liste della Camera, senza contare i ripresentati nella lista comune al Senato), il 3,7% per Fratelli d’Italia (28 su 756), mentre era già presente in parlamento l’1.4% dei candidati di Rivoluzione civile, tutti provenienti dall’Italia dei valori. Alcuni parlamentari uscenti erano poi candidati in altre liste (da Amnistia giustizia libertà al Partito pensionati, fino a Intesa popolare) ma non era stato fatto il conto, anche per l’oggettiva difficoltà per loro di superare la soglia di sbarramento.

Già guardando i dati forniti, le dimensioni dello tsunami potevano essere palpabili: la percentuale dei ricandidati era davvero molto bassa, come mai lo era stata prima d’ora. Naturalmente occorreva considerare con attenzione e cautela quei numeri: nelle formazioni “minori” era ridotto al minimo il tasso dei ricandidati, ma questi occupavano quasi sempre i primi posti delle liste, per cui sarebbero stati gli unici ad avere qualche speranza di essere eletti (non era stato così, invece, per Emma Bonino nella lista AGL); nel Pd a una quota di ricandidature più elevata corrispondeva l’inserimento di molti nomi nuovi proprio nelle posizioni più favorevoli per l’entrata in Parlamento.

Ora che il rito delle elezioni si è compiuto, si può dire qualcosa di più. Il fatto che (per lo meno alla Camera) il premio di maggioranza sia scattato a favore della coalizione di centrosinistra, all’opposizione nella legislatura appena terminata, ha certamente fatto in modo che il tasso di rinnovo dell’intera assemblea sia maggiore rispetto a quello che si avrebbe avuto se il premio fosse toccato al centrodestra (per cui sono risultati eletti molti parlamentari uscenti di Pdl e Lega, ma diversi di loro sono rimasti fuori e ci sono stati pochi spazi per nuovi ingressi); il grande numero di seggi conquistati dal MoVimento 5 Stelle e quelli toccati alle liste legate a Mario Monti hanno contribuito a lasciare fuori da Camera e Senato vari candidati in attesa di una riconferma. Non è ancora tempo di conti definitivi (il quadro degli eletti non è completo, occorre che gli eletti in più circoscrizioni optino per una o per l’altra, liberando dei posti), ma le proporzioni dello tsunami parlamentare sono già chiare e sotto gli occhi di qualunque osservatore.

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L'autore: Gabriele Maestri

Gabriele Maestri (1983), laureato in Giurisprudenza, è giornalista pubblicista e collabora con varie testate occupandosi di cronaca, politica e musica. Dottore di ricerca in Teoria dello Stato e Istituzioni politiche comparate presso l’Università di Roma La Sapienza e di nuovo dottorando in Scienze politiche - Studi di genere all'Università di Roma Tre (dove è stato assegnista di ricerca in Diritto pubblico comparato). E' inoltre collaboratore della cattedra di Diritto costituzionale presso la Facoltà di Giurisprudenza dell’Università di Parma, dove si occupa di diritto della radiotelevisione, educazione alla cittadinanza, bioetica e diritto dei partiti, con particolare riguardo ai loro emblemi. Ha scritto i libri "I simboli della discordia. Normativa e decisioni sui contrassegni dei partiti" (Giuffrè, 2012), "Per un pugno di simboli. Storie e mattane di una democrazia andata a male" (prefazione di Filippo Ceccarelli, Aracne, 2014) e, con Alberto Bertoli, "Come un uomo" (Infinito edizioni, 2015). Cura il sito www.isimbolidelladiscordia.it; collabora con TP dal 2013.
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