Se in Siria ci fossero veramente le armi chimiche …

Pubblicato il 30 Luglio 2013 alle 15:58 Autore: Ilenia Buioni

Non si è radicalmente dubitato dell’autenticità di siffatte dichiarazioni, sulle quali si staglia tuttavia un’ombra più intimidatoria che reale, a giudicare dal precipitoso susseguirsi di ritrattazioni del regime e di ulteriori e nuove asserzioni di disertori di alto livello.

Un paradosso certo ingombrante, che rende insufficientemente credibili le scelte compiute dal Paese mediorientale, che già aveva aderito alla Convenzione Internazionale contro la  produzione e l’utilizzo di armi chimiche. Ma, ancora distante da prove concrete,  la subdola paura di ciò che potrebbe essere vive tra le trame di una semplice congettura.

Ad amplificare  supposizioni dense di inquietudine, la voce di Carla Del Ponte (magistrato della Commissione Onu che indaga sulle violazione dei diritti umani in Siria) si è levata anche contro  i ribelli che – stando alle testimonianze raccolte fino a Maggio scorso –  avrebbero utilizzato armi chimiche, tra cui il gas nervino. E mentre l’ONU si premurava di precisare ancora l’assenza di validi elementi probatori, l’ex Procuratore Del Ponte  proseguiva con l’auspicare l’ingresso della Commissione all’interno del Paese, con l’intento di svolgere debiti rilievi su presunti arsenali (The Guardian).

Tra tutte le segnalazioni pervenute finora alle Nazioni Unite, è soprattutto la Russia – partner fedele del regime – ad asserire che l’utilizzo del gas sorin a  Khan al-Assal sia stato impiegato dai ribelli dell’opposizione.

 

Ne populi ad arma veniant

Un passo avanti può leggersi nei fruttuosi accordi che la scorsa settimana hanno avuto luogo a Damasco: il meeting finalizzato a definire le modalità delle indagini sull’uso di armi chimiche ha coinvolto il capo degli ispettori dell’Onu Ake Sellstrom e l’Alto Rappresentante Onu per il disarmo Angela Kane da una parte, e gli esponenti della politica siriana dall’altra (Haaretz).

Le preoccupazioni della NATO sulla Siria sembrano risentire di fattori a cascata, ossia delle preoccupazioni per i diritti umani e le riforme democratiche, del timore del terrorismo internazionale e della presenza o meno di armi di distruzione di massa. Moti di disappunto contro un crogiolo di elementi giudicati pretestuosi infiammano parte dell’opinione pubblica. Un capolavoro di sottile inganno sarebbe dunque quello intessuto dall’Occidente per giustificare un intervento nel Paese, in nome di anteposte ragioni di allarme che sollecitano “piani di emergenza” (Washington Post).

Ad ogni modo, per esigenze di correttezza, si consideri come il Presidente Obama parlava la scorsa estate di un plausibile intervento militare nella regione, che resterebbe però subordinato all’accertamento dell’uso di armi chimiche contro la popolazione, vale a dire all’inopinabile certezza di un dramma già consumato.  Ed è su questa stessa lunghezza d’onda che si collocano la prudenza e la fiducia nelle indagini condotte dalle Nazioni Unite in un Paese in cui il rispetto per l’essere umano si è disperso in un biennio  di folle regresso.

La volontà di ricostruire la dignità dell’uomo ed il rifiuto della guerra, tradizionalmente intesa come operazione armata di uno Stato nei confronti di un altro Stato, è il corollario irrinunciabile della logica del disarmare e del prevenire senza aggredire.  Entro questo spazio, qualunque scelta strategica militare dovrebbe esclusivamente rispondere alle istanze della giustizia penale internazionale, mai al  conflitto o all’occupazione.

 

Luttine Ilenia Buioni