Quella riforma simbolo della fine di un’era

Pubblicato il 6 Dicembre 2010 alle 16:10 Autore: Livio Ricciardelli
Quella riforma simbolo della fine di un’era

C’è qualcosa di simbolico nelle proteste degli studenti contro la riforma universitaria di questo governo. Qualcosa di simbolico che però non sfrutta il fatto di esserlo per estraniarsi del tutto dalla realtà dei fatti, e matura una forte critica politica fatta di argomentazioni, conoscenza e critica nel merito.

La riforma universitaria della Gelmini e di questo governo (che qualcuno non a torto definisce una “non-riforma” e parlerò dopo di questo) è stata approvata alla Camera dei Deputati e quindi dovrà passare al Senato per l’approvazione definitiva.

Dovrà. Ma in realtà è meglio dire “dovrebbe”: il governo Berlusconi IV è appeso ad un filo e se il 14 non otterrà la fiducia di entrambe le camere il suo destino è seriamente compromesso. Potrebbero dunque andare al macero tutte le iniziative governative lasciate incomplete, come la riforma degli atenei italiani.

Non è un caso del resto che lo stesso governo abbia di fatto rinunciato alla sua riforma della giustizia. Uno dei cinque punti del fantomatico rilancio berlusconiano. Insomma, c’è un’aria di provvisorietà a Palazzo Chigi.

E proprio in questo scenario che la riforma universitaria matura un elevato carico simbolico, fino ad assumere il ruolo di piccolo ma significativo paradigma dei nostri tempi: probabilmente questa riforma andrà al macero, sotto le macerie di questo governo. Ma gli atti simbolici della protesta studentesca non si fermano: continuano iniziative nelle università e prese pacifiche dei monumenti nazionali. Simbolici anche questi.

Il simbolo della protesta che continua comunque nonostante l’intrigato iter della riforma si fonde con un opposto simbolo che vede del tutto ribaltati i ruoli: cosa spinge un governo dalla vita (forse) breve approvare una serie di norme che poi comunque non si riuscirà a portare in porto?

Alcuni sostengono che, essendoci una larga maggioranza a favore di questa riforma in Parlamento, gran parte del centrodestra abbia voluto dare un tocco di normalità alla sua azione politica con una norma per una volta e finalmente votata da tutte le forze che comprendevano l’oramai ex coalizione di centrodestra. Insomma: un modo per auto compiacersi, per sdrammatizzare una drammatica situazione politica.

Ma probabilmente c’è di più: il governo che forse storicamente si è meno interessato ai destini dell’istruzione, dell’università e della ricerca come asset strategico del nostro paese intende con questo gesto dare un altro segnale: colpire, verso la fine della propria esperienza di governo, la cosa più importante di un paese. Ciò che forma il suo futuro, le nuove generazioni e dunque il destino di una nazione intera.

Una tesi rafforzata da chi sostiene che l’immaginario berlusconiano del resto si basa su una serie atti di pura “contro-educazione” forgiata dal “Drive In” quasi trent’anni fa, e da certi programmi mattutini e pomeridiani di una degenerazione della televisione commerciale.

Ovviamente ciò è opinabile ed assume, come detto prima, un elevato carico simbolico.

Ma c’è anche una protesta politica. Un protesta che è del resto sancita dalla nostra carta costituzionale. Una protesta che come molto spesso accade rischia di compromettersi per le solite frange violente, in grado di travalicare quel ben definito confine tra protesta e atti di mera illegalità. Della serie “estremismo malattia infantile” di tutto ciò che volete.

E quindi si parla di questo ddl Gelmini come una non riforma. Una seria di tagli generalizzati che non porterà ad alcuna soluzione. Che sotto qualche slogan contro le baronie in realtà mantiene difficili da rimuovere presidi eterni e corsi inutili.

La cosa interessante, ma al tempo stesso triste, è che molti anche tra i fautori di questa riforma non negano ad essa questa natura di “non-riforma”: i tagli generalizzati del resto non sono altro che un’occasione per una “giusta risistemazione” di un variegato universo universitario e un atto dovuto considerando la difficile congiuntura economica.

Qui non si vuole difendere la politica tipica degli anni ’80 (quando si formarono gran parte degli attuali ministri del governo Berlusconi, tra l’altro) del debito pubblico e dello Stato troppo poco saggio nel far quadrare i conti pubblici. Ma è forse bene ricordare che questa logica della politica dei tagli, questa scarsa attenzione al rilancio e allo sviluppo è uno dei motivi che spinge qualcuno a vedere nel continente europeo una macroarea in declino, capace solo, nel suo deficit di politica concertata, di proporre vaghi tagli per far quadrare i conti. Col risultato che i livelli di crescita sono nettamente inferiori oltre a quelli indiani e cinesi anche a quelli statunitensi. E ciò porta ad un triste scenario riguardante i debiti sovrani e lo stesso paventato declino di quello che fu l’invidiato modello europeo.

Molto spesso la società sta più avanti della politica, e i movimenti molto spesso se sottovalutati rischiano di condurre a scelte politicamente miopi.

Appena iniziata quella che egli stesso, ai microfoni della Bbc, definì “la battaglia d’Inghilterra” Winston Churchill stupì il mondo: si presentò alla Camera dei Comuni proponendo più diritti e più fondi soprattutto per l’obiezione di coscienza dall’esercito. Aveva capito che la battaglia contro chi negava certi valori andava condotta promuovendo più libertà, più diritti e più progresso. Egli vinse la sua battaglia.

Oggi siamo in cupi tempi di crisi economica. Per il rilancio appunto per questo si dovrebbe puntare sugli asset strategici del paese. Per ribadire le ragioni di un paese, le motivazioni di uno stare insieme e rilanciare lo sviluppo bisognerebbe proprio investire di più sulla cosa più importante che noi tutti possediamo: il nostro, seppur incerto, bellissimo futuro di uomini liberi.

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L'autore: Livio Ricciardelli

Nato a Roma, laureato in Scienze Politiche presso l'Università Roma Tre e giornalista pubblicista. Da sempre vero e proprio drogato di politica, cura per Termometro Politico la rubrica “Settimana Politica”, in cui fa il punto dello stato dei rapporti tra le forze in campo, cercando di cogliere il grande dilemma del nostro tempo: dove va la politica. Su Twitter è @RichardDaley
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