Una riflessione sulle primarie

Pubblicato il 10 Marzo 2012 alle 10:18 Autore: Matteo Patané
primarie

L’esito delle elezioni primarie di Palermo, che hanno incoronato l’ex dipietrista Ferrandelli come candidato unico del centrosinistra per la corsa alla poltrona di sindaco, ha scatenato un nuovo terremoto ai vertici delle forze progressiste italiane. Il PD, ma in questa occasione anche l’IdV e SEL, aveva infatti sostenuto la candidatura di Rita Borsellino, ad eccezione dell’ala dei cosiddetti rottamatori di Matteo Renzi che aveva invece dato il proprio appoggio a Davide Faraone.
Bene aveva fatto Bersani a ribadire, in una sua partecipazione alla trasmissione Che tempo che fa, che le primarie sono – scendendo al succo del suo discorso – niente più e niente meno che lo strumento che il Partito Democratico, e in misura minore la stessa coalizione di centrosinistra come accaduto a Palermo, mette a disposizione dei propri simpatizzanti affinché questi possano rinnegare le scelte della dirigenza e imporre persone di maggiore gradimento.

È tuttavia innegabile che le modalità di svolgimento delle primarie giocano un ruolo fondamentale nella definizione del risultato delle consultazioni stesse, e possono fare la differenza tra un immaturo rifiuto dell’esito delle votazioni e delle legittime riflessioni sull’utilizzo e sull’eventuale evoluzione del mezzo.
Il caso di Palermo, così come quello di Napoli nel 2010, appartiene a questa seconda categoria: più che l’esito in sé del voto, con la risicatissima e contestata vittoria di Ferrandelli, sono gli eventi di contorno a sollevare importanti questioni su come si siano svolte le primarie nel capoluogo siciliano, questioni che sfociano sulla regolamentazione delle primarie stesse e sulle possibili alternative che ne possono scaturire.

Generalmente un’altissima affluenza viene considerata un segno del successo delle primarie. I volti trionfanti della dirigenza del centrosinistra alla notizia del superamento dei tre milioni di votanti alle primarie nazionali del 2007 e del 2009 ne sono di certo un simbolo.
Eppure non vi sono limitazioni di sorta a chi può votare alle primarie. Un’altra affluenza alle elezioni primarie non è necessariamente un fattore da interpretare come positivo: può significare consenso ma anche contaminazione, può essere indice di reale entusiasmo e partecipazione quanto dell’intervento di altre forze politiche che utilizzano lo strumento partecipativo per pilotare l’esito del voto. La certezza su quale sia l’interpretazione corretta in caso di altissima affluenza arriva soltanto dopo le elezioni effettive, quando si misura la reale forza del candidato vincitore delle primarie in contrapposizione con i suoi reali avversari politici.
Quello della libertà di accesso al voto è un tema estremamente serio e di difficile soluzione. Le primarie statunitensi, da cui sono mutuate quelle italiane, prevedono il voto ai soli iscritti al partito, trasformando l’appuntamento in una specie di congresso di partito a partecipazione diretta. Il Partito Democratico, e in generale il centrosinistra, ha scelto di non replicare questo aspetto delle consultazioni d’oltreoceano, aprendo la porta, oltre che ai militanti, anche generalmente a tutti i simpatizzanti.

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L'autore: Matteo Patané

Nato nel 1982 ad Acqui Terme (AL), ha vissuto a Nizza Monferrato (AT) fino ai diciotto anni, quando si è trasferito a Torino per frequentare il Politecnico. Laureato nel 2007 in Ingegneria Telematica lavora a Torino come consulente informatico. Tra i suoi hobby spiccano il ciclismo e la lettura, oltre naturalmente all'analisi politica. Il suo blog personale è Città democratica.
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