Banca d’Italia: possibile de-privatizzarla senza infrangere accordi comunitari?

Pubblicato il 20 Settembre 2017 alle 18:04 Autore: Redazione
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Banca d’Italia: possibile de-privatizzarla senza infrangere accordi comunitari?

La Banca d’Italia è tutt’oggi un istituto di diritto pubblico sottoposto alle leggi dello Stato italiano e segue -a differenza delle altre banche- regole di funzionamento diverse da quelle di una solita società per azioni. D’altra parte è pur vero che gli azionisti di maggioranza sono i principali istituti di credito italiani, tra questi ve ne sono 8 che necessitano di un fabbisogno finanziario per circa 13 miliardi di euro a causa della presenza nel loro attivo patrimoniale di c.d. titoli “tossici”.

Tali istituti di credito -privati- che coordinano l’operato della Banca d’Italia sono soggetti all’Accordo di Basilea 2, in vigore dal 2008, che prevede come la concessione di credito alle imprese debba avvenire mediante la valutazione del rischio, basato su parametri legati alle informazioni reali sull’impresa quali: il fatturato prodotto, l’utile realizzato nel triennio precedente, l’utile potenziale futuro e il rischio di settore. L’applicazione rigida di questi criteri, soprattutto in un periodo di crisi reale come quello attuale, svantaggia le piccole e medie imprese italiane che, storicamente sottocapitalizzate, non risultano sostenibili finanziariamente e per cui potrebbero essere costrette ad uscire dal mercato.

La legge 262/2005 come contrasto agli accordi, ma in favore delle direttive?

Una possibile soluzione al problema verrebbe concessa dall’attuazione della Legge 262/2005 recante “Disposizioni per la tutela del risparmio e la disciplina dei mercati finanziari”. Tale legge disciplina -all’articolo 19 comma 10- come procedere alla ridefinizione dell’assetto proprietario della Banca d’Italia. Questa apre alla possibilità di realizzare un’operazione di “Buy Back”, che consisterebbe nel riacquisto di titoli propri da parte della stessa Banca d’Italia. Ciò le permetterebbe, quindi, di comprare le quote di partecipazione degli istituti di credito privati che ne compongono il quadro amministrativo. Tale operazione permetterebbe innanzitutto la ricapitalizzazione degli istituti di credito in difficoltà – di cui si è accennato sopra – che andranno quindi a vendere le proprie quote, oltre al fatto che tutte le banche cedenti andrebbero ad ottenere in generale notevoli plusvalenze.

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In particolar modo, la Banca d’Italia tornerebbe a svolgere il suo ruolo di istituzione pubblica e, svincolandosi dagli Accordi di Basilea 2, potrebbe riuscire a mettere in atto le politiche finanziare espansive della B.C.E., che incoraggia un incremento della liquidità e quindi la possibilià di condere credito con più facilità. Soprattutto, quindi, alle piccole e medie imprese. Tale politica della B.C.E. ha però trovato ostacolo alla sua prosecuzione proprio negli Accordi di Basileaa 2; altro fattore è la poca liquidità messa a disposizione dagli istituti di credito che detengono titoli tossici. Questi, però, andrebbero risanati proprio tramite l’investimento della Banca d’Italia.

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Il vero valore della Banca d’Italia

La domanda ora sorge spontanea: ma la Banca d’Italia dove trova la liquidità necessaria per finanziare l’operazione? La Banca d’Italia presenta un “Patrimonio Netta Allargato” – composto dal patrimonio proprio; dal fondo rischi generale; dalle riserve rivalutate; pari a 54 miliardi di euro. Tale patrimonio è particolarmente consistente; sia rispetto a quello della Banca Centrale Francese che a quello della Tedesca. Queste presentano, infatti, un indice di patrimonializzazione pari rispettivamente al 7% e al 12,5%. Procedendo al riacquisto di proprie azioni per 13 miliardi di euro, la Banca d’Italia ridurrebbe il Patrimonio Netto Allargato del 24,07%. Con ciò, resterebbe comunque tra le prime 10 banche centrali per patrimonio netto.

Arturo Bellini

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