Sulla definizione di Leadership. Seconda puntata: il PD

Pubblicato il 29 Aprile 2012 alle 21:38 Autore: Gianluca Borrelli

In soli 2 anni dal titolone “Buonanotte” del Manifesto (sempre memorabile nelle sue prime pagine) all’indomani delle elezioni europee del 1994, si passò ad una morte politica apparente di Berlusconi, morte che non si concretizzò anche grazie a una certa spregiudicatezza dello stesso D’Alema che aveva altre ambizioni oltre al fare il king maker di Prodi: voleva essere il primo Premier post-comunista italiano.
Tutto il suo piano riuscì. La sua visione, sia tattica che strategica, era anni luce superiore a quella di Occhetto. Il controllo del partito da parte sua era pressocché totale.
In poche parole, senza alcun dubbio dal 1994 al 2000 il centrosinistra ebbe un vero leader, ma la sua leadership mancava di un elemento fondamentale: non era un leader nazionale ma di partito/coalizione (Prodi invece nel momento dell’ingresso nell’Euro fu percepito come tale un po’ da tutti gli italiani, i sondaggi dell’epoca erano chiari).
D’Alema era percepito come troppo di parte, come una specie di “usurpatore” del ruolo che spettava a Prodi, ma soprattutto aveva voluto una occasione per non essere più “figlio di un dio minore” (parole sue che citavano un bellissimo film dell’epoca), però nei suoi 2 anni di governo, a parte la privatizzazione della Telecom (che col senno di poi non è stata un grande affare per la Telecom e nemmeno per l’Italia) non si ricordano grandi innovazioni, se non una buona gestione della crescita susseguente al buon lavoro fatto in precedenza da Prodi e Ciampi.

Veltroni fu messo alla guida del partito, ma un partito di cui D’Alema era ancora profondamente leader.
In quella stagione ci fu una serie di sconfitte tra le quali la più bruciante fu quella storica di Bologna del 1999. Un colpo al cuore per la sinistra italiana.
Non si pensò ad un deficit di gestione da parte di Veltroni, anche perché era troppo evidente che il vero leader restava sempre D’Alema.

Nonostante la successiva sconfitta alle regionali del 2000 e la sostanziale uscita dal primo piano, D’Alema è poi rimasto molto influente anche negli anni a seguire.
I maligni dicono a causa dei soldi delle fondazioni, ma non è certo per quelli se ancora oggi tra i giovani democratici ci sono un sacco di “seguaci” di D’Alema chiamati perfidamente (da quelli delle altre correnti) i “dalebani” o i “dalemasessuali”, e questo non 10 anni fa ma adesso nel 2012.
Segno che una direzione D’Alema l’ha impressa, una direzione che si è persa nel momento in cui ha voluto dare sfogo all’ambizione di diventare il primo premier ex-PCI italiano.

E’ meglio un uovo oggi o una gallina domani? Col senno di poi diremmo che quell’uovo era meglio farlo crescere e lasciare Prodi dove era (non prendiamoci in giro dando la colpa a Bertinotti: una manovra di quel genere richiedeva enorme intelligenza politica e non è certo il caso di Bertinotti, che nella circostanza si fece usare irretito da falsi sondaggi che lo davano al 15% in caso di rottura con Prodi, partiva dall’ 8,6% del 1996 e, invece di prendere il 15% che sperava, prese il 4,3% alle europee del 1999; la cosa più incredibile è che poi sia rimasto segretario di RC anche dopo il dimezzamento dei voti in soli 3 anni).

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L'autore: Gianluca Borrelli

Salernitano, ingegnere delle telecomunicazioni, da sempre appassionato di politica. Ha vissuto e lavorato per anni all'estero tra Irlanda e Inghilterra. Fondatore ed editore del «Termometro Politico».
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