Quei pianisti stonati

Pubblicato il 6 Giugno 2013 alle 23:23 Autore: Gabriele Maestri

Non è facile ricostruire quando a qualcuno dei parlamentari venne in mente per la prima volta di lasciare la propria scheda a un collega, anche solo per farsi coprire un’assenza di pochi minuti (assenza comunque poco giustificata, perché da regolamento il voto elettronico viene annunciato con un congruo anticipo, di norma venti minuti); alla fine del 1990, tuttavia, doveva già essere nota la malapratica, specialmente nei momenti di maggiore tensione in cui ogni assenza in aula poteva essere determinante, di improvvisare «cooperative del voto plurimo» (così le chiama, con ironia caustica, lo studioso di diritto parlamentare Andrea Manzella). Accadde allora l’8 novembre che l’ufficio di presidenza di Montecitorio ordinò ai commessi di ritirare subito tessere pericolosamente abbandonate sui banchi o “sbadatamente” lasciate inserite nella pulsantiera senza che il titolare fosse al suo posto; alla fine del decennio si minacciarono sanzioni ed espulsioni per i parlamentari “colti sul fatto”.

Fotogramma del 2002

Il problema, tuttavia, non fu affatto risolto. Episodi simili se ne verificarono ancora e, a quanto pare, continuano a verificarsi. Particolarmente illuminante, per un confronto con l’attualità, un fotogramma del 25 ottobre 2002, giorno in cui fu approvata la “legge Cirami” a Palazzo Madama. Willer Bordon, allora capogruppo della Margherita, mostrò ventisei fotogrammi tratti da un filmato – che, a onor del vero, risultava «girato da un operatore di una televisione autorizzata» – in cui molti senatori dell’allora maggioranza di centrodestra sarebbero stati colti nell’atto di pigiare anche il pulsante del vicino. «In aula ho contato 110 senatori – denunciò Bordon – ho molti dubbi che ci fosse il numero legale, è stato violato l’articolo 64 della Costituzione». Di votazioni «controllate da presidente, vice presidenti e segretari» parlò subito la Presidenza del Senato, sulla stessa linea il capogruppo Fi a Palazzo Madama, Renato Schifani, convintissimo nel difendere i suoi parlamentari (compreso – anche allora, ma quella volta realmente – Lucio Malan), al punto che tutti i presidenti dei gruppi parlamentari di maggioranza chiesero un giurì d’onore contro Bordon e colleghi.

Proteste ce ne furono allora, come ce ne sono state in questi giorni e – bisogna ammetterlo – sono sacrosante. Il fatto è che i rimedi, allora come oggi, sono ben pochi. Solo il Presidente di assemblea, a norma di regolamento, può annullare l’esito di una votazione se riscontra irregolarità e farla ripetere immediatamente. Se non lo fa, non c’è nulla da fare, se non evitare che altri episodi si ripetano. Alla Camera, ad esempio, dal 2009 il meccanismo del voto si attiva con le impronte digitali e a qualcuno l’innovazione non piacque proprio, al punto che all’inizio di aprile un centinaio di deputati non aveva fornito le proprie “minuzie”: siccome non è obbligatorio farlo, quei deputati possono continuare a votare con il vecchio sistema della tessera e il problema rimane tutto. Altre soluzioni, però, non ci sono.

Persino la Corte costituzionale, con la sentenza n. 379/1996, disse che la giustizia penale non avrebbe potuto procedere contro i parlamentari “pianisti” (per i reati di falso ideologico del pubblico ufficiale in atto pubblico e sostituzione di persona) poiché questo avrebbe leso l’autonomia delle Camere garantita dalla Costituzione: solo i Presidenti delle Camere, dunque, avrebbero potuto giudicare le violazioni del diritto parlamentare ed eventualmente comminare sanzioni. Il giudice costituzionale, peraltro, dovette ammettere che perché l’autonomia delle Camere potesse mantenere la propria legittimazione, il Parlamento avrebbe dovuto porsi il problema della «congruità delle procedure di controllo, l’adeguatezza delle sanzioni regolamentari e la loro pronta applicazione nei casi più gravi di violazione del diritto parlamentare». Tempo ne è passato parecchio, ma il problema è rimasto. E se da una parte è giusto che le regole le rispettino tutti – compresa quella che vieta le riprese in aula se non autorizzate e da parte della stampa – dall’altra non si può transigere sulla correttezza delle decisioni delle aule. Il voto è una cosa seria, che non merita di essere svilito, men che meno da “pianisti” decisamente stonati.

L'autore: Gabriele Maestri

Gabriele Maestri (1983), laureato in Giurisprudenza, è giornalista pubblicista e collabora con varie testate occupandosi di cronaca, politica e musica. Dottore di ricerca in Teoria dello Stato e Istituzioni politiche comparate presso l’Università di Roma La Sapienza e di nuovo dottorando in Scienze politiche - Studi di genere all'Università di Roma Tre (dove è stato assegnista di ricerca in Diritto pubblico comparato). E' inoltre collaboratore della cattedra di Diritto costituzionale presso la Facoltà di Giurisprudenza dell’Università di Parma, dove si occupa di diritto della radiotelevisione, educazione alla cittadinanza, bioetica e diritto dei partiti, con particolare riguardo ai loro emblemi. Ha scritto i libri "I simboli della discordia. Normativa e decisioni sui contrassegni dei partiti" (Giuffrè, 2012), "Per un pugno di simboli. Storie e mattane di una democrazia andata a male" (prefazione di Filippo Ceccarelli, Aracne, 2014) e, con Alberto Bertoli, "Come un uomo" (Infinito edizioni, 2015). Cura il sito www.isimbolidelladiscordia.it; collabora con TP dal 2013.
Tutti gli articoli di Gabriele Maestri →