Se la base vuole (ri)prendersi il Pd

Pubblicato il 23 Giugno 2013 alle 13:06 Autore: Gabriele Maestri

Nella sala risuonano più volte le parole «merito» e «dignità», considerate troppo poco presenti nell’azione dei dirigenti: «I nativi del Pd – dice una ragazza, venuta espressamente da Rotterdam – sanno che quella del merito è la nuova lotta di classe, anche nel partito». Si rivendica trasparenza «sulle candidature, sulle risorse e soprattutto sulle fondazioni, ancora piuttosto nell’ombra» lamenta Giulio Del Balzo di FutureDem; pesa anche la scarsa o quasi nulla considerazione riservata alle articolazioni territoriali, anche in termini economici («Fassina dice che i contributi pubblici sono destinati ai circoli, allora dove sono finiti?» denuncia uno degli interventi).

Il maggior motivo di sofferenza, però, è la distanza tra la base e i dirigenti. Brucia ancora, forse più che la sconfitta, la bocciatura di Prodi al Quirinale: gli appartenenti alle reti sanno di essere ben più di 101, ma il problema rimane. Occorre ricominciare a parlare a chi si è chiamato fuori ad esempio «al 55% dei Romani che non è andato al ballottaggio» e, soprattutto, guardare ai problemi reali delle persone cercando di risolverli. Anche per questo occorre uno smart party, un partito “intelligente” che «sappia fare rete nei tanti territori che ora governa – precisa l’architetto Emilio D’Alessio – e si confronti in modo sereno e aperto», con meccanismi di partecipazione (come le primarie, i referendum interni e le assemblee aperte) che non facciano altro che attuare quanto è scritto nello statuto.

Passa per una manciata di parole chiave il nuovo sorgere di una visione e di una speranza per il Pd secondo la deputata Michela Marzano. C’è l’ascolto delle osservazioni, che «non è solo nei contenuti ed è sempre reciproco» ed è la base per comunicare bene, c’è il bisogno di usare in modo autentico le parole perché «l’unico modo di affrontare i problemi è cominciare a chiamarli col loro nome anche se ci fa male e spesso non ci riusciamo»; occorre valorizzare le competenze («Ma sembra quasi che nel Pd non ne siamo più capaci»); bisogna rimettere in primo piano idee e battaglie su contenuti concreti, a partire dalle lotte sui diritti.

Molto diretto sui temi più scottanti Aurelio Mancuso, di Equality Italia: «Per curare il Pd si parta dalle persone: niente partiti elitari, si dia spazio alle idee e alle reti di opinione»; per Mancuso, che considera l’eventuale accordo Renzi-D’Alema «un patto sciagurato», il problema non sono le correnti ma «il fatto insopportabile che la classe dirigente si autosostenga e che, cambiando i nomi, comandino sempre gli stessi». Interviene anche il segretario dei Radicali italiani, Mario Staderini, che individua tre potenziali terreni di azione che i democratici possono perseguire con varie forze: «Innanzitutto introdurre un sistema elettorale basato su collegi elettorali maggioritari, l’unico che rimetta al centro della scelta la persona; poi viene l’Europa, avendo ben chiara la prospettiva degli Stati Uniti d’Europa e del federalismo leggero che nel Pd Sandro Gozi propone da tempo». Da ultimo Staderini ha invitato il partito a ricollegare esigenze sociali a iniziative popolari, come proposte di legge e referendum, facendosi carico soprattutto dei quesiti sulle leggi Bossi Fini (flussi migratori) e Fini-Giovanardi (stupefacenti), leggi che «in questo contesto non verranno certo toccate».

Dopo varie ore, il messaggio dell’incontro è chiaro per tutto: per cambiare sul serio il Pd va (ri)costruito daccapo o almeno ristrutturato; è altrettanto palese però che serviranno uomini nuovi rispetto a chi, fin qui, non ha fatto nemmeno la manutenzione ordinaria.

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L'autore: Gabriele Maestri

Gabriele Maestri (1983), laureato in Giurisprudenza, è giornalista pubblicista e collabora con varie testate occupandosi di cronaca, politica e musica. Dottore di ricerca in Teoria dello Stato e Istituzioni politiche comparate presso l’Università di Roma La Sapienza e di nuovo dottorando in Scienze politiche - Studi di genere all'Università di Roma Tre (dove è stato assegnista di ricerca in Diritto pubblico comparato). E' inoltre collaboratore della cattedra di Diritto costituzionale presso la Facoltà di Giurisprudenza dell’Università di Parma, dove si occupa di diritto della radiotelevisione, educazione alla cittadinanza, bioetica e diritto dei partiti, con particolare riguardo ai loro emblemi. Ha scritto i libri "I simboli della discordia. Normativa e decisioni sui contrassegni dei partiti" (Giuffrè, 2012), "Per un pugno di simboli. Storie e mattane di una democrazia andata a male" (prefazione di Filippo Ceccarelli, Aracne, 2014) e, con Alberto Bertoli, "Come un uomo" (Infinito edizioni, 2015). Cura il sito www.isimbolidelladiscordia.it; collabora con TP dal 2013.
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